L’autore ricorda, a tre anni dalla Sua scomparsa (21 marzo 2019), la figura della Rev.ma Suor Anna Maria Canopi, Madre Badessa delle Suore Benedettine di clausura presso il Convento dell’Isola di San Giulio (NO). Viene qui riproposta un’intervista sulla vita monacale e di clausura, una scelta radicale che merita rispetto. Madre Anna Maria Canopi è stata un riferimento spirituale intenso all’interno della Chiesa Cattolica. La vita monacale, il rispetto della Regola, la rinuncia alle lusinghe della mondanità, non le hanno impedito di partecipare attivamente alla vita culturale e spirituale della Chiesa pubblicando una notevole serie di libri di riflessione e meditazione.

Rev.ma Madre che cosa vi giunge del clamore e delle presenze chiassose del mondo, ma anche delle sue tribolazioni, delle sue fatiche, delle ansie della gente? Condividendo anche voi i travagli e le sofferenze del nostro tempo, dove trovate la forza della rasserenante consolazione? Veramente «monaco è colui che è separato da tutti per essere a tutti unito»?

Il compito del monaco non è di agire direttamente per gli altri uomini, ma di essere per loro un supplemento di umanità nuova, un anticipo delle realtà escatologiche, una segreta sorgente di luce e di consolazione. Nulla di ciò che è umano è estraneo al monaco, ma tutto egli immerge nel divino, perché ne sia purificato e trasfigurato. Quanto più egli sta nascosto con Cristo in Dio, tanto più si trova anche nel cuore dell’umanità e vi tiene presente Dio stesso. Senza conoscere nei dettagli, attraverso i molteplici mezzi di comunicazione, gli avvenimenti del mondo, recepisce nel suo intimo tutti i fremiti di gioia e di dolore dell’umanità e li condivide; proprio assumendo le angosce e le speranze di tutti e stando alla presenza di Dio in continua preghiera di intercessione e di lode, il monaco si fa “pronto-soccorso” con il cuore colmo di quella tenerezza consolatrice e di quella forza di fede e di speranza che attinge continuamente dal cuore di Cristo e della Vergine Madre. 

«Serva ordinem, et ordo servabit te», custodisci l’ordine e l’ordine custodirà te». Questa metafora può essere utile anche a spiegare la scelta della vita claustrale e a rendervi reciprocamente condivisibile la vita comunitaria fino alla totale appartenenza ad essa? Quanto conta il rispetto delle regole dentro e fuori le mura del convento?

L’antico adagio Serva ordinem, et ordo servabit te si adatta bene anche alla vita monastica claustrale, soprattutto a quella cenobitica, ossia di coloro che scelgono di vivere sotto una Regola e un abate (cf. RB 1). In questa sentenza è significativo anzitutto il verbo servare, custodire. Esso richiama immediatamente la figura di Maria che ci viene presentata nel Vangelo in atteggiamento di umile raccoglimento, come colei che, di fronte ad eventi incomprensibili e talvolta sconcertanti, «serbava tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Per ogni religioso, la Regola del proprio Ordine non è un “regolamento” da osservare, non è un insieme di norme cui adeguarsi esteriormente, ma  una “parola di vita” da accogliere con amore, da cui lasciarsi formare e trasformare, affinché si formi il volto interiore corrispondente al carisma specifico che l’Ordine vuole incarnare. Del resto, tutta la vita consacrata – come pure la vita cristiana – altro non è che una progressiva conformazione a Cristo, ma con sfumature diverse; per certi Ordini di vita attiva il modello sarà il Cristo buon Pastore, il Cristo Medico o Maestro; per altri sarà l’Orante, il Servo sofferente, il Figlio obbediente… Lasciandosi plasmare interiormente dalla propria Regola – che è una proposta di fedele attuazione del Vangelo – il religioso acquista un’identità nuova, un volto nuovo, un nuovo modo di sentire e di pensare, un’intelligenza penetrante e il discernimento necessario per riconoscere e vincere le tentazioni, per smascherare gli inganni dell’antico nemico, per mettere a tacere le sempre insorgenti pretese dell’uomo vecchio, ed essere così custodito nella fedeltà alla propria vocazione. Tracciando il profilo dell’abate benedettino Bonifacio Osländer, il beato Ildefonso Schuster annota, con viva ammirazione, che egli «già innanzi negli anni, diceva di scoprire nella Regola ancora nuove verità, nuove fonti di consolazione che tutta gli inebriavano l’anima». E lo stesso Schuster scrivendo a un amico affermava: «La Regola t’illumina nei bivi che la vita inevitabilmente ti presenta… Quando tu leggi, o senti leggere la Regola, non la considerare come un libro qualsiasi: è Dio che te l’ha data quale rettissima norma di vita».

La crisi che sta attraversando la società contemporanea è determinata da una convergenza di fattori: relativismo culturale, secolarizzazione, carenza di valori, mancanza di progetti condivisi, vita effimera, lusinga del successo e del denaro. Sembra che questo mondo abbia perso gli orizzonti di senso e non sappia più governare una rotta sicura. Quanto sarebbe utile fermarsi e riflettere, rallentare e orientare la direzione di marcia, riscoprire ciò che abbiamo perduto strada facendo piuttosto che procedere senza una mèta verso il cambiamento fine a se stesso?

Con la loro silenziosa vita fondata su valori che nella società si vanno sempre più eclissando, i monaci si pongono come “segno di contraddizione”, che interroga e inquieta gli animi, li attrae e li respinge al tempo stesso. Mentre nella mentalità corrente la ricerca della verità cede sempre più il posto al dominio dell’opinione, la chiave di volta della vita monastica è l’amore assoluto alla Persona di Gesù Via, Verità e Vita; mentre nel mondo  il bene è facilmente posposto o sacrificato all’utile e al piacevole, al successo e alla realizzazione personale, il monaco offre a Dio la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini; mentre nel mondo la libertà è ormai generalmente intesa come autonomia e autogestione – con la conseguente fragilità o lo sgretolamento di ogni forma di vita comunitaria – il monaco liberamente si stabilisce in una determinata comunità abbracciando una vita di umile e nascosta obbedienza per conformarsi a Cristo obbediente fino alla morte di Croce. Per questo le comunità monastiche – non semplicemente i singoli monaci – diventano una presenza significativa nel mondo, l’indicazione di una diversa concezione e di un diverso orientamento della vita. Semplicemente per il fatto di esserci,  esse manifestano la priorità dello spirituale sul materiale, dell’invisibile sul visibile, dell’eterno sul caduco. Quando poi a queste comunità ci si accosta e le si frequenta, ancor più ci si accorge che la «separazione dal mondo», caratteristica essenziale della vita monastica, non significa estraneità o indifferenza alle vicende storiche ed esistenziali dell’umanità; al contrario, comporta un coinvolgimento interiore che diventa supplica a Dio nella preghiera e insieme accoglienza ospitale di tutti coloro che cercano un’oasi nel deserto, dove poter deporre i loro pesanti fardelli e riprendere il cammino con rinnovata speranza. Molte e toccanti sono, in proposito, le testimonianze lasciate dagli ospiti anche solo con un breve biglietto al momento della partenza, ma soprattutto accade che da una sosta quasi casuale nasca un rapporto duraturo nel tempo, segno di un’esigenza profonda del cuore che finalmente ha trovato un approdo. 

All’uomo naufrago del nostro tempo, privo di approdi rassicuranti e di certezze esistenziali in questo mondo sconvolto da emergenze planetarie, servirebbe una bussola capace di riorientare il cammino. Si avverte anche, tuttavia, l’impossibilità di procedere da soli. Non le sembra che la multiculturalità, la compresenza di etnie e religioni diverse imponga di adottare un codice etico su valori condivisi? Come vivere e stare in mezzo agli altri in questa simultaneità di riferimenti ideali, tenendo ben saldo il timone della navigazione e la certezza della propria fede?

Gli innumerevoli conflitti che insanguinano il mondo intero e causano continue migrazioni di popoli, l’uso incontrollato delle nuove tecnologie di comunicazione, ora anche la grave crisi economica mondiale sono altrettanti fattori destabilizzanti, disorientanti. Viviamo in un momento di profondo travaglio sociale; occorre vegliare affinché l’attuale situazione di confusione non degeneri fino all’autodistruzione, ma i vari fattori presenti siano fermenti di una nuova nascita. Nel suo recente viaggio in Terra Santa, proprio in riferimento all’incontro e al dialogo tra religioni e culture diverse, il Santo Padre ha, ancora una volta, lanciato la «sfida a coltivare il vasto potenziale della ragione umana», affinché essa sia «rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità…, di cercare tutto ciò che è giusto e retto…, anche a spese personali». Se questo vale per ogni uomo «di buona volontà», il mostrare Dio in un mondo smarrito e confuso, è certamente la missione specifica del monachesimo contemporaneo. Con il loro servizio ospitale, infatti, le comunità monastiche vogliono proprio essere un aiuto a tutti i fratelli che sentono il bisogno di raccoglimento e di silenzio per “ritrovare se stessi” e poter così anche essere al servizio degli altri secondo la propria specifica missione, senza rinnegare la propria identità, senza confondere le culture e i valori, ma valorizzando ogni germe di bene e di verità.

In che misura la via del silenzio, della meditazione e della preghiera può essere fonte di nuove scoperte interiori, fino a disvelarci quella bellezza che resta sopita nel chiasso vano e includente delle molte parole prive di significato? Lo avvertiamo già in una semplice pausa, immagino che lo si apprezzi ancor più come scelta di vita. Quanto è gratificante questo percorso e quanto ci aiuta ad avvertire la presenza di Dio? È questa la strada che conduce alla gioia dell’incontro con Gesù fino a dare voce alla Sua parola rivelatrice?

Sempre più numerose sono oggi le persone che, stordite dal rumore e dal frastuono del mondo in cui sono immerse, sentono urgere dentro di sé la necessità del silenzio; non di rado, quindi, sono disposte a rinunziare ai consueti momenti distensivi offerti dalla società consumistica, per trascorrere qualche giorno in luoghi appartati e silenziosi quali sono i monasteri. Spesso questa esigenza di silenzio è come una ferita attraverso la quale molti iniziano un cammino di riscoperta della fede, un cammino di vera e profonda conversione.  Il silenzio è una dimensione indispensabile alla vita spirituale. Non si tratta di un bene riservato a pochi privilegiati, ma di un bene indispensabile a tutti; è, si può dire, il pane per la vita dell’anima. Molte espressioni della Sacra Scrittura ci fanno anche intuire che il silenzio è il cielo dell’anima. «Tibi silentium laus» (Sal 65,1): «Per te il silenzio è lode, o Dio», canta il Salmista. Se il silenzio così inteso è, come la preghiera contemplativa, dono di Dio, per accoglierlo occorre però una “iniziazione”, una preparazione che coincide con un graduale procedere nella purificazione del cuore, nella spogliazione del superfluo che ingombra il nostro “io”. Soltanto quando ci si è liberati dalla brama di autoaffermarsi e di porre se stessi al centro dell’interesse, è possibile mettersi in silenzio. Al vero silenzio si perviene, infatti, unicamente attraverso la via dell’umiltà e della dimenticanza di sé. Spesso si identifica il “silenzio” con il “divieto” di parlare e viene perciò subito come imposizione penosa e mortificante. Ma non è così. Si può fare un’autentica esperienza di che cos’è il silenzio lasciandosi “afferrare” dal silenzio stesso che non è un vuoto, ma uno spazio dato alla misteriosa presenza di Dio. L’esperienza del silenzio non mette davanti a qualcosa di straordinario e di gratificante, ma fa scoprire la dimensione spirituale, interiore della vita, la bellezza della semplicità, l’importanza dell’ascolto, il valore della “gratuità”. Questo itinerario spirituale anche per chi vive in monastero è tutt’altro che facile! Ci si trova sempre agli inizi, sempre alla scuola elementare dell’unico Maestro che può insegnare il vero silenzio offrendo se stesso come esempio: Gesù Cristo. Egli,  che era solito trascorrere le notti in orante silenzio, a cuore a cuore con il Padre, nell’ora del processo, nell’ora della sua estrema missione, davanti alle calunnie e all’ingiusta condanna seppe tacere – Jesus autem tacebat (cf. Gv 19,9-10) – perdonare, offrirsi con amore. Accanto a Lui vediamo Maria, sua Madre, Colei che può essere chiamata “Vergine del silenzio e dell’ascolto”, l’umile serva e silente portatrice del Verbo della Vita. In lei regna il silenzio perché parla soltanto la Parola.

Obbedienza, rinunzia, distacco, affidamento: che cosa si lascia – abbracciando questa scelta – e che cosa si trova invece di veramente arricchente? Sfrondare ciò che è superfluo vi aiuta a scoprire l’essenziale e il necessario?

L’obbedienza non è altro che la nostra risposta all’amore di Dio e – nell’amore di Dio – il dono di noi stessi al prossimo; è l’accettazione di una vita di comunione in cui si dipende gli uni dagli altri per il fatto che si vive gli uni per gli altri. Obbedire in questo senso è quindi un bisogno, come per tutti è un’esigenza irrinunciabile amare. Questi due verbi si coniugano insieme. La disobbedienza ha portato l’uomo lontano da Dio; l’obbedienza lo riconduce a Lui. E la strada del ritorno è lo stesso Figlio di Dio fattosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce (cf. Fil 2,6-8). Effettivamente san Benedetto propone al monaco come ideale la piena conformazione al Cristo. Ecco, dunque, il vero ed unico motivo dell’obbedienza: l’amore a Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cf. Gal 2,20). Ci può essere qualcosa di più dinamico e liberante? Non si tratta tanto di eseguire materialmente degli ordini, quanto di aderire bono animo alla volontà del Signore, che si manifesta mediante persone e avvenimenti talvolta difficili da comprendere e accettare. Solo lo spirito di fede e la buona disposizione d’animo rendono allora autentica l’obbedienza e lieto il sacrificio della volontà propria. Comunque la sofferenza che si prova nel dire no  a se stessi non è paragonabile alla gioia che si riceve nel dire sì a Dio. Tale esperienza è però possibile soltanto sotto la guida dello Spirito Santo, perché è lo Spirito che affina i nostri sensi e che ci dà la capacità di conoscere, apprezzare e gustare le cose di Dio, quindi di gioire spiritualmente, proprio mentre viene  mortificato (= messo a morte) il nostro “uomo vecchio”. Come ho già detto, questa ascesi non è una proposta “facoltativa” rivolta soltanto ai monaci, ma dovrebbe essere il normale itinerario spirituale indicato a tutti i cristiani. L’esasperata preoccupazione di affermare ad ogni costo il proprio “io” – come avviene oggi su larga scala – porta a conseguenze veramente disastrose a tutti i livelli: nella famiglia, nella scuola, in ambito professionale ecc. L’autoaffermazione che diventa sistematica disobbedienza è vera fucina di disordine, di sopraffazione, di violenza, conseguentemente di infelicità. 

Come si realizza la pienezza della vita consacrata, qual è il suo fascino e il suo significato «mentre passa la scena di questo mondo»? Come vive una “Madre Abbadessa” la sua maternità spirituale e che cosa chiedono alla vocazione monastica le giovani donne che intendono consacrare per sempre la vita a Dio?

A queste domande mi pare giusto rispondere partendo dalla Donna – Maria – che è l’archetipo di tutte le donne chiamate alla maternità verginale. Sul Calvario, dall’alto della Croce, mentre compie l’unico e irripetibile sacrificio del proprio Corpo e del proprio Sangue, Gesù, rivolgendosi a Maria sua Madre e mostrandole il discepolo Giovanni, dice: «Donna, ecco tuo figlio». La costituisce, così, madre di tutti gli uomini da lui redenti.  La donna consacrata partecipa in modo speciale alla vocazione di Maria nell’accogliere come suoi figli tutti gli uomini per generarli spiritualmente.  Questa maternità spirituale è insieme dono di grazia – perché supera infinitamente le possibilità della natura – e consegna di responsabilità, perché richiede una libera e totale adesione a ciò che tale dono di maternità comporta come servizio alla vita. Si può dire che le molteplici attuazioni della vita consacrata sono come le diverse sfumature dell’unico amore oblativo. Consapevole del suo delicato ministero, la donna consacrata deve innanzitutto custodire se stessa, come una madre che porta in seno un figlio. Da qui l’esigenza imprescindibile della santità di vita. Infatti, quando la donna vive la maternità spirituale si può dire che si pone permanentemente nell’eroismo, perché il dono di sé non conosce né soste, né limiti. Giorno e notte essa veglia su una moltitudine di figli bisognosi ed esposti a molteplici pericoli, perciò giorno e notte versa, in certo modo, il proprio sangue per soccorrerli. E la forza del dono di sé fino al martirio non può attingerla altrove che dal cuore trafitto di Gesù Cristo, ossia dalla partecipazione, insieme con Maria, al mistero della croce, dalla preghiera e specialmente dal Sacramento dell’Eucaristia. Nutrendosi del Corpo eucaristico di Cristo, essa pure è resa capace di immolarsi con lui per darsi a tutti come pane di vita. Consumando umilmente la propria esistenza nel silenzio e nell’obbedienza, considera il sacrificio quotidiano la normale condizione della sua esistenza, intessuta di quella fede che davvero sposta le montagne della superbia e dell’odio, di quella speranza che apre l’orizzonte su un futuro di vera felicità e di quella inesausta carità che fa gustare il sapore di Dio. 

 

Nella lunga storia dell’umanità e specialmente nei secoli bui, durante i periodi di crisi culturale e sociale, nei conventi, nei monasteri, nelle abbazie sono rimaste accese fiammelle di luce e di speranza che hanno tenacemente illuminato e protetto la strada del progresso e della civiltà. Non solo luoghi di conservazione di valori e tradizioni, ma fari per andare oltre, per guardare al futuro. Avvertite e condividete l’importanza di questo affidamento? Come potete aiutare l’uomo ad orientare il suo cammino verso la verità e il bene?

A questo quesito ho in parte già implicitamente risposto nel numero precedente. Ora posso concluderlo anche con un cenno all’esperienza della nostra fondazione monastica «Mater Ecclesiæ». Quando, nel 1973, approdammo all’Isola San Giulio, ad affascinarci fu proprio la percezione della storia che sembrava trasudare dalle antiche pietre dei sacri edifici; una memoria quasi sepolta sotto le dure incrostazioni di polvere depositate dai secoli e imprigionata nel silenzio dei grandi anditi vuoti, e tuttavia memoria ancora viva e palpitante, come in attesa di essere risvegliata dall’arrivo di qualcuno… Fu, effettivamente, un incontro d’amore, un evento di grazia tra noi, piccolissimo gregge, e il luogo sacro che ci accoglieva. Sì, veramente nel corso della storia, nel ciclico imperversare di guerre e rivoluzioni, nel dilagare di una mentalità pagana o della attuale cultura del relativismo, che è cultura di di morte, i monasteri sono stati – e ancor oggi sono chiamati ad esserlo – “custodi” della vita di fede e quindi anche culla di sempre rinnovata civiltà cristiana. Per questo occorre che i monaci siano molto – come diceva Paolo VI – «vigilanti nel crepuscolo di questo mondo» e consapevoli del valore della loro vocazione per l’intera umanità. Un monaco del Monte Athos ha recentemente scritto: «Questo è il trucco che usa il diavolo nel nostro tempo. Egli sa che le nuove generazioni – disgustate da un modo di vivere senza ideali – troveranno rifugio nel monachesimo, perciò cerca di ostacolare noi monaci nel vero lavoro spirituale e di farci cadere nella miseria, per non essere lievito spirituale. Le prossime generazioni avranno bisogno di noi per aggrapparsi al cielo. Non  dimenticate questa cosa» (Dionisios Tatsis, Non cercate una santità a buon mercato. Vita e insegnamenti dal Monte Athos, Ed. Dehoniane, Roma 1997, p. 110). È vero: non bisogna essere “sconsiderati”, né pessimisti sul futuro. Per dare gloria a Dio, sento di dover testimoniare che da trentasei anni, ossia dalla fondazione, sull’Isola San Giulio abbiamo fatto l’esperienza di un continuo miracolo. Infatti, il “piccolissimo gregge” è cresciuto in modo tale da potersi espandere su altri pascoli: il Priorato «Regina Pacis» in Valle d’Aosta e quello della «SS. Annunziata» in Fossano (Cuneo), dove, in sintonia con il coro della comunità isolana, dall’alba al tramonto e ancora nella notte, le ore sono scandite sul ritmo della “lode perenne” e così il tempo fluisce nell’eternità riscattando dalla caducità tutte le cose e ordinandole al loro fine ultimo. 

 

Suor Anna Maria Canopi fondò e diresse tutta la vita, una comunità monastica presso l’Isola di San Giulio in provincia di Novara. Scrittrice molto feconda e profonda erudita della letteratura dei Padri della Chiesa, pubblicò diversi libri sulla storia del monachesimo e sulla spiritualità cristianaCollaborò all’edizione della Bibbia della CEI, al Catechismo della chiesa cattolica e alle edizioni dei nuovi messali e lezionari. Preparò il testo della Via Crucis di Giovanni Paolo II al Colosseo nel 1993. Nel 1995 intervenne al Congresso della Chiesa italiana di Palermo  portando la sua testimonianza di badessa benedettina al Convegno dei giovani europei tenutosi a Loreto.  L’intera vita monastica nella clausura dell’Istituto delle Suore Benedettine di cui fu sempre Madre Badessa la rese un riferimento per tutti coloro che cercano nel silenzio, nella meditazione e nella preghiera la via della riflessione interiore e del radicamento della fede, per dare un senso diverso alla propria vita.

 

               

 

L’abbazia Mater Ecclesiae è un monastero benedettino femminile di clausura, situata sull’isola di San Giulio, sul lago d’Orta, in provincia e diocesi di Novara.