Non si trovano fisicamente luoghi, in natura e nei contesti organizzati dall’uomo, in cui si possa materializzare il silenzio assoluto.
John Cage – grande musicista del Novecento, tutto genio e sregolatezza – nella celebre partitura intitolata 4.33 era riuscito a dimostrare che il silenzio totale non esiste: il “pezzo”, della durata di quattro minuti e trentatre secondi consisteva nel disporsi davanti ad un pianoforte senza suonarlo.

In quel lasso temporale si potevano udire i rumori di sottofondo che si coglievano nel silenzio della musica non orchestrata: John Cage voleva teorizzare infatti che possiamo attribuire ai suoni e ai rumori che ci circondano una valenza musicale se riusciamo a porci in una condizione di ascolto del mondo (“per me il significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione”).
Da questo singolare punto di vista la musica non consiste tanto nell’esecuzione quanto nell’astensione, nella capacità di percepirla intorno a noi senza agire per crearne una nuova se non quella che deriva dalla connessione armonica tra le parti di quella ascoltata o prodotta dalla nostra mente.

Oltre la metafora suggestiva resta intatto il valore del messaggio: la disponibilità all’ascolto genera musicalità che a sua volta conferisce creatività al pensiero.
Il silenzio è soprattutto un luogo mentale, l’espressione di una capacità selettiva che produce concentrazione e immaginazione, astrazione e fantasia, riflessione e armonia.
A volte anche interrogativi, soprattutto se ascoltiamo la voce della nostra anima e se rivisitiamo i luoghi della nostra vita.

Il silenzio evoca la multicorde sensibilità di cui siamo capaci ed è in fondo il bene immateriale più prezioso e raro perché ci fa dono dell’ascolto di sé stessi.
Il silenzio vero, quello che non esiste ma che percepiamo come luogo di appagamento interiore, non ha spazi, non ha confini, non ha colori ma ha l’insieme indistinto di tutte queste cose, la somma di quelle parti che noi gli conferiamo con la nostra immaginazione.
Chiudiamo gli occhi e ci lasciamo trasportare dai sentimenti, nella nostra più inviolabile intimità possiamo essere protagonisti del tempo che ci appartiene e che ci concediamo lontano dai vincoli della parola.

Il silenzio ci scava dentro e nel profondo può essere persino rivelatore di verità nascoste.
Va goduto per quello che ci dà ma soprattutto per quello di cui ci priva.
“Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”, concludeva e raccomandava Federico Fellini nel suo film ’La voce della luna’.

La parola ci rende apparentemente diversi, più o meno capaci di farci capire anche se questa soggettività è poi essenziale alla democrazia della comunicazione, ha un suo codice regolativo che anticipa e spiega le relazioni tra le persone, la reciproca comprensione o almeno il tentativo di perseguirla.
Il distacco dalle cose, che si realizza nell’astrazione e nel silenzio, ci fa invece sembrare uguali nell’apparenza della sua impercettibile decifrazione, nella sua impenetrabilità esterna ma anche profondamente e radicalmente differenti in quanto a ricchezza delle voci di dentro, così sfumate e quasi aristocratiche, assolutamente personali, assorte, meditative, illeggibili da fuori.

E’ una musica tutta nostra quella che sentiamo dentro di noi quando riusciamo a concederci qualche momento di pausa dai doveri sociali: ora appagante, ora tempestosa, a volte ci dà pace a volte sussulti e angosce.
Sentimenti irripetibili per noi che viviamo in un mondo pervaso da presenze rumorose e riempitive: tutti devono dire, spiegare, aggiungere, puntualizzare, esserci.
Una concezione “protesica” della metafisica del fare: per risolvere i piccoli e grandi crucci dell’esistenza bisogna “aggiungere”, intervenire, metter mano, agire, parlare.
Avevo chiesto al Premio Nobel Levi-Montalcini che cosa ne pensasse del silenzio.
Mi aveva risposto: “Io in genere sto molto zitta, preferisco il silenzio alle parole, come condizione per lo studio e la ricerca e come regola di vita.
Si può pensare ma non è necessario parlare”.

Ci manca il culto dell’astrazione, del distacco, dell’absentia.
Non so a cosa pensasse Kant quando la sua mente ci regalò la descrizione più originale, ricca, sintetica ed esplicativa dei sentimenti umani di fronte ai misteri della vita: “Due cose riempiono l’animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” .
Un’intuizione geniale che ciascuno può declinare nella propria esperienza di pensiero e di meditazione, che illumina con poche, misurate parole il senso della presenza umana nell’universo: quello esterno a noi, infinito e immenso e quello della nostra coscienza, altrettanto incommensurabile e profondo.

La vera voce del silenzio è forse quella della coscienza che ci parla e ci interroga sul passato, sul presente, sui nostri destini, che scandaglia la nostra anima nel lungo viaggio di riflessione sui misteri della vita.
Questa voce che urla interrogativi e sussurra risposte, che dice, che tace, che piange, che ride ma che solo noi possiamo ascoltare e tenere per sé, senza avvertire l’obbligo di doverla comunicare.

In questa ricerca introspettiva, fatta di astrazione e di lontananze, dove prendiamo distanza dalle cose, finiamo per essere paradossalmente più vicini alla nostra esistenza di quanto consapevolmente ci capiti di fare “vivendola”.

Il ricordo e le suggestioni dell’anima, la fantasia e i sogni ci portano lontano ma ci restituiscono anche una più avvertita consapevolezza di sè.
Il silenzio – ci insegna una splendida poesia di Attilio Bertolucci – è assenza che diventa più acuta presenza.