L’ACCORDO CON I ROSSO-VERDI CORRISPONDE ALL’IDEA DI UN PD RIFORMATORE? LETTA SI CARICA DI UNA GRANDE RESPONSABILITÀ.

Non si capisce quanto giovi un’alleanza costruita unicamente sulla logica dei numeri. E poi, quali numeri? Si raschia il fondo del barile, a sinistra, con il rischio però di perdere consensi sul versante moderato. In questo modo si consegna a Calenda e Renzi un grande spazio al centro dello scacchiere politico. In ogni caso, il Pd è nato sulle ceneri dell’Unione con la volontà di rompere con la prassi delle ammucchiate (a sinistra). Non si rischia di tornare indietro?

Spero si possa ragionare con la dovuta franchezza anche in questa fase complicata per il Partito democratico. Nel giro di poche ore ci troviamo di fronte al netto cambio di rotta nella costruzione dell’alleanza per il 25 settembre. Tutti capiscono che l’uscita di Calenda incide fortemente sul profilo dell’iniziativa elettorale. Il tentativo di minimizzare lo strappo serve solo a mascherare una oggettiva difficoltà nel percorso faticosamente avviato.

Non serve dare consigli. Letta ha imboccato una strada che prevede molte insidie: se ha risolto nella sua testa di poter  andare avanti, lasciando al suo destino un Calenda fino a ieri alleato strategico, evidentemente ha calcolato rischi e vantaggi di questa decisione. Un’analisi attenta porta comunque a ritenere che i vantaggi siano più apparenti che reali, giacché l’apporto della componente rosso-verde di Fratoianni e Bonelli consiste in una somma algebrica di positività e negatività: come reagirà, infatti, l’elettorato più moderato all’ingresso della sinistra radical-ecologista? Quale sarà, dunque, il suo contributo netto alla causa complessiva dell’alleanza? 

I dubbi si accrescono quando osserviamo l’effetto della rottura, vale a dire il suo impatto sulle aspettative generate da un tendenziale irrobustimento del terzo polo. Calenda abbandona Letta e trova subito appresso la compagnia di Renzi: nasce dunque un’aggregazione che non appare casuale o innaturale agli occhi della pubblica opinione, rispondendo in effetti a una domanda diffusa relativamente alla rappresentazione dello spazio intermedio tra le due proposte, entrambe movimentate al loro interno, di destra e di sinistra.

Mi permetto di rilevare che Calenda e Renzi offrono una sponda qualificata all’elettorato che continua a nutrire fiducia, anche dopo la traumatica conclusione del governo di unità nazionale, nell’operato di Mario Draghi. Il “centro” che s’apprestano ad organizzare ha una riconoscibilità  elevata perché muove dal presupposto che all’Italia convenga proseguire nel lavoro egregiamente avviato dall’esecutivo, anche prevedendo – risultati alla mano – la conferma dell’attuale premier all’indomani delle elezioni. Si tratta di una piattaforma che assicura al “centro” la dignità derivante da un percorso di coerenza e concretezza. Se poi si aggiunge la potenziale apertura ai valori del cattolicesimo sociale e popolare, in sintonia con una lettura solidaristica dell’Agenda Draghi, diventa quanto mai attrattiva la rigenerazione di un “centro di progresso” per il retroterra  del Pd legato in origine ai valori del popolarismo.

Tutto questo espone Letta. Il Partito democratico, nato sulle ceneri dell’Unione, conserva nel suo dna il distacco dalla logica delle ammucchiate (a sinistra). Nel 2007 si fece uno sforzo per addivenire rapidamente alla formazione del nuovo partito, anche se alcuni di noi avrebbero preferito un processo più graduale, passando per l’esperimento di una federazione. Veniva sancito il “mai più” che archiviava, in modo definitivo, la prassi delle alleanze fondate sui numeri, più che sulla reale condivisione di un progetto politico. Quella scelta non condusse al successo, ma permise al nuovo soggetto politico di raggiungere un rispettabilissimo 34 per cento di consensi. Era l’inizio di un “centrosinistra” che rompeva con gli ideologismi della sinistra radicale e, pagando un prezzo nel periodo breve o medio, si candidava alla guida del Paese sulla base di un programma “per” e non “contro” qualcuno o qualcosa.     

Il problema è capire allora se questa inversione di marcia, con il ritorno ad accordi elettorali senza una visione politica unitaria, non metta a repentaglio il modello di “partito della nazione” votato alla saldatura di uno schieramento riformatore ampio, retrocedendo quello sforzo generoso e innovativo a chimera del passato. È una domanda che in queste ore, nonostante l’urgenza dei tempi e delle decisioni, è lecito porsi con grande serietà.