Articolo pubblicato dalla rivista Atlante di Treccani a firma di Arnaldo Testi

Agli inizi degli anni Sessanta, a parlare di “legge e ordine” non è, come oggi, il presidente degli Stati Uniti. È piuttosto il Sud razzista, il Sud dell’ala razzista e segregazionista del Partito democratico. Da quelle parti vuol dire “tenere i negri al loro posto”. Tenerli dove i meridionali bianchi li hanno costretti intorno all’anno 1900, segregati ed esclusi dalla vita politica (si vede bene in una delle scene finali di Nascita di una nazione, il film capolavoro di Griffith del 1915: gli eroi a cavallo del Ku-Klux Klan fanno il loro eroico lavoro di richiudere gli ex schiavi nei loro quartieri). Tenerli dove fanno sempre più fatica a tenerli, perché i movimenti di protesta e per i diritti civili sono nati insieme con la segregazione stessa, e stanno diventando più aggressivi.

Law and order è dunque uno slogan che evoca un sogno di stabilità in un contesto instabile, un desiderio che rimuova la paura, con effetti di disordine e illegalità spesso letali (i linciaggi, per dire).   Non che l’ordine e la legge non siano cose buone in sé, magari prese una per volta. Il governo della legge, la “rule of law” è lo Stato di diritto. E chi non vuol vivere in una società ordinata?

È la loro accoppiata a diventare uno strumento contundente, quando è agitata nella vita pubblica per dire, da parte di chi ha il potere per dirlo, in genere in nome di una reale o inventata maggioranza: la nostra legge e il nostro ordine, contro voi minoranze rompiscatole. La si trova dunque usata, oltre che nel Sud segregato, in altri luoghi e periodi di vita inquieta, di conflitti politici affrontati come problemi di ordine pubblico, di disordine inteso come somma di disobbedienza sociale e criminalità comune. Subito dopo la Rivoluzione, per esempio, o subito dopo la Guerra civile (durante una guerra, o durante una rivoluzione, non è il caso).

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