Per gentile concessione di BeeMagazine riproponiamo l’intervista a Giuseppe De Rita, pubblicata lo scorso 21 aprile. Per sapere di più sul progetto editoriale del magazine si può fare clic sul seguente link https://beemagazine.it/chi-siamo/

Mario Nanni

Nel dibattito sulle “due (tre) culture” che BeeMagazine ha avviato da tempo tra eminenti personalità della cultura italiana, abbiamo invitato a esprimere il proprio punto di vista il professor Giuseppe De Rita, presidente del Censis, e autore di memorabili Rapporti annuali sulla società italiana, studiata e scandagliata con gli occhi del sociologo, dell’antropologo culturale e anche del futurologo. Al Professor De Rita avevamo chiesto, come a tanti professori universitari, di scrivere un articolo, ma egli ha preferito la forma dell’intervista vis à vis. È stata l’occasione, peraltro, di affrontare anche altre questioni in qualche modo connesse con il tema principale.

Beemagazine ha avviato un dibattito, raccogliendo contributi e interventi, sul tema delle due culture, umanistica e scientifica. Cominciamo con una domanda, professor De Rita: intanto due o tre culture? 

Banalmente, risponderei: oltre alle due culture ce n’è una terza, la cultura socio-politica. Quest’ultima è destinata a farsi sintesi, altrimenti avrebbe ragione Luigi Morandi, quando sosteneva che le intese sono difficili. La cultura sociopolitica è necessaria per una interpretazione dei fenomeni.

Diceva, una risposta banale. E parlandone più in profondità?

Noi oggi abbiamo una terza cultura che ha distrutto le prime due…

E quale sarebbe?

La cultura dell’opinione. Siamo tutti opinionisti. Basta vedere la tv. Sui virus sparano opinioni Cacciari, Burioni e tanti altri. Invece di una dialettica che si sviluppi all’interno della cultura abbiamo tante scuole di opinione.

Il risultato qual è?

Siamo in una crisi grave; mentre dovremmo parlare di una terza cultura, invece imperversa la cultura dell’opinione, tengono la scena dieci scienziati che hanno detto tutto e il suo contrario.

Un’altra domanda per avviare il discorso: quale rapporto ci può essere tra le due, le tre culture? Di sinergia, di conflitto, di contaminazione, per usare un termine un tempo di moda?

Si può trovare una intesa se la terza cultura riesce a fare mediazione e sintesi, se la cultura socio-politica sarà all’altezza. Se restano isolate, chiuse nella loro autosufficienza, non solo le intese saranno difficili, come diceva Luigi Morandi,  ma queste culture non si parleranno mai.

Andiamo un po’ indietro, Professore. Tra un anno sarà un secolo dalla riforma della scuola di Giovanni Gentile. Ha svolto una funzione storica, non c’è dubbio, ma il germe della scissione tra le due culture, della separatezza tra scienze fisiche e scienze umane non è partito da lì? Dall’idealismo che svalutava la scienza e, vediamo per esempio Croce, la riduceva a pseudo concetto?

Non sono d’accordo. L’idealismo di Croce e Gentile era un idealismo che esaltava la formazione umanistica della cultura. E secondo me quella impostazione è ancora valida. Diciamocelo: è la dimensione umana, culturale e sociale che cambia il mondo, non le macchine in quanto tali. Roberto Calasso diceva: la storia è storia della letteratura, da Omero a Musil. Non una storia delle date, delle guerre, ma una storia della letteratura. Forse era l’esagerazione di un editore, di un uomo innamorato dei libri, ma è una suggestione che fa riflettere.

Le racconterò un particolare: a una mostra sulle conquiste fenicie che alla fine riguardarono la Sardegna, c’era un cartellone in cui si mostrava questa scena: i fenici mandavano a morte coloro che avevano superato i 50 anni. La scena mostrava che questi condannati a morte  andavano a morire con un sorriso di scherno, beffardo, sul viso. Da qui riso sardonico. Ebbene, il colpo di scena è stato che questo particolare storico lo si trova già in Omero!

La crisi della scuola di oggi dunque non c’entra con la riforma di Gentile?

La crisi vera della scuola bisogna cercarla altrove. La crisi si annida nella convinzione durata anni che la scuola basti a se stessa, che basti una frequenza pluriennale; la crisi è in questa visione quantitativa della frequenza scolastica sganciata dal mondo del lavoro. La colpa è della strategia della scolarizzazione estremizzata che risale agli anni Settanta: la proliferazione delle classi, degli insegnanti, per fare grandi numeri. Era una politica scolastica dove le esigenze dei sindacati si sono saldate con calcoli politici clientelari. E così la scuola si è avvitata su se stessa, si è chiusa in se stessa.  Mentre già da allora si doveva pensare a una scuola finalizzata al lavoro.

La famosa frase di Terenzio “Nihil humani a me alienum puto” può dare un’idea della concezione integrale della cultura e dell’unione dei saperi, perché in fondo tutti si riconducono all’uomo?

Mi viene di dire che Terenzio viene usato per giustificare l’autonomia e il valore dell’opinione. E viene citato spesso a sproposito.

Ai fini di una integrazione dei saperi, non dovrebbe essere ripensato il sistema dei programmi scolastici? Per fare un esempio: chi studia al liceo classico sa di Omero ma ignora nozioni fondamentali di economia. È normale?

Non vedo questa urgenza di anticipare lo studio di certe materie. Che cosa è il pil o lo spread lo studente liceale ha tanti modi per saperlo.

La parcellizzazione delle discipline, non solo nel campo scientifico ma anche nel campo umanistico, quanto ha inciso nell’accentuarsi della dicotomia tra scienze della natura e scienze dello spirito, per citare la formula di Dilthey?

Ha inciso. E molto.  Se lei fosse andato a vedere l’annuario dell’Università italiana di dieci anni fa avrebbe trovato 20 pagine di “storie”, voglio dire di insegnamenti tipo: storia di questo, storia di quello. Gli storici hanno occupato tutto. Ora a fare la parte del leone è il management: ma il meccanismo, mutatis mutandis, è lo stesso: prima gli storici, ora il management variamente combinato con le discipline.

Medici come Bulgakov, Cechov e Celine, ingegneri come Musil e Gadda, scienziati della politica come Machiavelli si sono dati alla letteratura, e cioè a materie umanistiche: che cosa le suggeriscono questi esempi?

Sono persone che hanno avvertito la settorialità del loro sapere e hanno sentito l’esigenza di avere un campo più largo. Si saranno detti: ho fatto una cosa, e in fondo che cosa ho fatto? E si sono dati alla letteratura. Prendiamo, uno per tutti, Machiavelli: ha scritto cose sbalorditive di scienza politica. Ma poi, la sera, dopo aver giocato a tric trac nell’osteria con i suoi villani, si chiudeva nello studio…

Come racconta nella celebre lettera a Francesco Vettori…

Già. Indossava i panni curiali per parlare con i Grandi del passato e per nutrirsi, come scrisse, “del cibo che solum è mio e vivo per lui”. Noti questo particolare: per parlare con i Grandi sentiva il dovere di indossare panni curiali, cioè solenni. Come si fa a una festa. E quel dialogo con i grandi era appunto una festa dell’intelligenza e della culttura.

Si sente ogni tanto parlare di Nuovo Umanesimo, scritto con la maiuscola e la minuscola: in una ideale “carta del nuovo umanesimo” Lei professore quali valori fondamentali inscriverebbe?

Il vecchio Umanesimo, diciamo pure l’Umanesimo storico, coltivava e guardava al passato. Ma l’Umanesimo storico ci ha poi portato il Rinascimento che guardava al futuro e costruiva l’avvenire. Se ci deve essere un nuovo umanesimo, questo deve continuare a guardare avanti. Le culture che sono andate avanti sono quelle che hanno espresso il valore della relazione, il valore dell’uomo per l’altro uomo. “Il volto di Dio comincia dal volto dell’altro”, ha detto Levinas.

E oggi è praticato questo principio?

Il grande nemico sa qual è? Le farò un esempio: il “vaffa” è la rottura della relazione. Con questa rottura la società italiana è andata indietro di mille anni.

Addirittura, professore…

Ma certo, e Le spiego perché: il “vaffa” è una lacerazione, una interruzione, una distruzione, del dialogo. Significa dire all’altro: di quello che dici, di quello che pensi, di quello che senti non m’importa niente. E così torniamo alla barbarie dell’uomo insulare, dell’uomo che non si relaziona. Ecco perché uno dei problemi più urgenti del nostro tempo, se non “il” problema, è cercare di recuperare il senso, la necessità, il bisogno della relazione. Solo su questo si può costruire.

Per concludere come abbiamo cominciato: quali sono le condizioni perché ci possa essere un rapporto virtuoso e fruttuoso tra le due culture, tra le tre culture?

Una condizione sola: che non pensino solo a se stesse. Oggi gli scienziati pensano solo a se stessi, i virologi pensano solo alla loro scienza. La prima cosa da abbandonare è l’autosufficienza, l’autoreferenzialità, che isola, non aggrega.

Una domanda che potrebbe sembrare eccentrica rispetto al tema di questa intervista, ma in realtà non lo è: la nostra Costituzione a quale tipo di cultura rinvia?

Alla cultura classica, ai valori umanistici del lavoro, della famiglia, della persona, della solidarietà sociale, dello studio meritevole anche se privo di mezzi. Basta ricordare i protagonisti di quel laboratorio istituzionale, politico e culturale che fu l’Assemblea costituente: Moro, La Pira, Concetto Marchesi, Togliatti, Croce, Calamandrei e tanti altri che non sto qui a nominare, l’elenco sarebbe lungo.

Che idea si è fatto del fenomeno che va sotto il nome di “cancel culture”?

È figlio della vittoria dell’opinionismo.

Lei che è un eminente sociologo e come un rabdomante ha scandagliato i movimenti sotterranei della società italiana, producendo ogni anno un Rapporto (ne sono stati presentati 50), ci può dire come viene percepita e rappresentata questa disputa ricorrente, e che rischia di apparire oziosa ma non lo è, tra le due, tre culture?

Come uno spettacolo, prodotto dal meccanismo dell’opinionismo. Un esempio recentissimo. C’è una guerra. Le guerre sono una cosa tragicamente seria. Ebbene, non c’è discussione sulla guerra, sulle stragi ma sul dilemma se Putin è buono o cattivo, se Zelensky è serio o è rimasto un comico. Questo è il livello. E poi: la pandemia è in calo, ma anche in questi dibattiti sulla guerra il virologo c’è sempre. Boh!

Professore, sta lavorando alla sua autobiografia? Avrebbe tanto da raccontare: i suoi maestri, le sue letture, i Rapporti Censis di cui è più orgoglioso…

Non ci sarà un’autobiografia. È un atto di narcisismo. Ho raccontato alcuni momenti della mia vita in qualche libro, ma non penso di scrivere un libro sul lavoro di una vita intera. Le farò dono di un libriccino che ho dedicato a Cecrope Barilli, “ricordo di un grande formatore”…

Professore, ho capito bene, Cecrope?

Sono sicuro che non molti avranno conosciuto un uomo chiamato Cecrope, nome peraltro arcaico e nobile essendo appartenuto al primo re di Atene.

Professore lo leggerò, ma intanto mi può dare un’idea del suo maestro?

Posso dire questo: la sua fu una vita dedita al civismo collettivo, all’educazione civica, all’etica della responsabilità pubblica. Resto convinto di aver notato decine di volte la sua silenziosa soddisfazione di quanto era potente il suo lavoro formativo nell’aver cambiato a tanti di noi la dinamica del cervello (e quella del corpo). Capivo dai suoi occhi sorridenti e ironici quando pensava: “adesso non sarete più come prima”.

Forse è questo l’effetto che il magistero formativo produce nel discepolo…

Formare è cambiare il giro dei pensieri di chi ti segue.

 

Mario Nanni è il Direttore editoriale di BeeMagazine. Per leggere l’intervista in originale cliccare su questo link

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