Le ferite nascoste del «terragno» Bruno Astorre: il commosso addio di Goffredo Bettini.

In apparenza c’era la forza, ma dietro quella maschera si nascondeva la fragilità di Bruno. Le ferite dell’anima non si cicatrizzano come la pelle del corpo. Ora, cosa è diventata la politica anche nel Pd? La comunità politica un tempo curava le persone. Vale a dire, se ne prendeva cura.

Goffredo Bettini

Se ne è andato nel modo più triste, solitario, doloroso e sconcertante. Bruno Astorre è stato fino all’ultimo un dirigente importante del partito di Roma e del Lazio. Direi persino, per molti aspetti, decisivo. Senatore, segretario regionale, personalità radicata e influente, saldissimo punto di riferimento soprattutto nella provincia di Roma e per tanti amministratori e sindaci. 

Lo conobbi quando era ancora molto giovane, prediletto discepolo di Severino Lavagnini, uno dei capi dei popolari italiani e fraterno amico di Franco Marini. Con Lavagnini avevo stabilito negli anni ’90 un rapporto di complicità e intesa politica. Mi piaceva di lui la lealtà inderogabile una volta che ci si era stretti la mano. Una tecnica politica raffinata, arguta, condita da quella furbizia che non si trasformava mai in un atteggiamento furbesco. Bruno era lì, instancabile nel lavoro e capace di ascoltare e imparare con una rapidità impressionante. Alla morte di Lavagnini mi venne naturale stabilire anche un legame con i suoi amici prediletti. 

Bruno era uno di questi. Lui veniva dalla Democrazia Cristiana ed io dal Partito Comunista, due tradizioni così diverse. Eppure proprio quelle tradizioni riuscivano, nella loro parte migliore, a farci intendere in modo diretto ed immediato. Egli aveva un grande rispetto delle gerarchie e dei valori in campo. Lo esplicitava con simpatico candore. Eppure non era certo persona da farsi mettere i piedi addosso. Aveva una forza e una capacità di decisione assai rare in mezzo a tanti politici che sembrano costantemente “canne al vento”. Aveva mutuato, e lo ripeteva spessissimo, un mio termine: “terragno”. L’ho usato spesso nei miei discorsi e nei miei libri. Significa non sopraelevato rispetto alla terra. E quindi alle persone, alla vita, alle sofferenze e alle speranze che ogni cittadino nutre dentro sé stesso. 

E lui diceva: io sono “terragno”. Con orgoglio. Con un senso di sfida verso i chiacchieroni che poi in realtà non concludono nulla. In effetti Bruno era “terragno”. Era cresciuto in un rapporto viscerale con i territori che lo avevano visto nascere e maturare. Gli piaceva risolvere i problemi, ascoltare e organizzare la gente semplice, muoversi dentro una prospettiva concreta e verificabile in tempi brevi. Egli, tuttavia, intuiva anche i processi politici più di fondo. E non l’ho mai visto fraintendere da che parte tirava il vento giusto della politica. Il suo potere nel Lazio è stato esteso e duraturo. Ha servito Zingaretti e la sua giunta. Gli è stato particolarmente vicino anche quando il presidente della Regione fu eletto segretario del partito. Lo ha fatto in sintonia con il suo indissolubile e fraterno amico Daniele Leodori. Un compagno straordinario per valore e umanità. 

Qualche anno fa, ormai lontano dalle dinamiche di gestione del Pd di Roma e del Lazio, chiamai Bruno e Daniele, come facevamo ogni tanto, a parlare un po’ dei problemi sul tappeto. Locali e nazionali. Mi era dispiaciuto molto che una valente consigliera regionale come Marietta Tidei si fosse allontanata dal partito, per confluire in Italia Viva. Dissi loro, pur non sapendo le motivazioni di quella scelta, che occorreva avere attenzione verso tutte le compagne e i compagni, gli amici e le amiche. Consigliai loro misura e prudenza. Mi ringraziarono e tennero conto di quelle mie parole perché sapevano bene non pronunciate per interessi personali, né tantomeno per nutrire una corrente che non ho mai avuto. 

Bruno appariva forte, persino ruvido. Con un sorriso aperto e una viva empatia, ti metteva a tuo agio. In superficie sembrava inossidabile. Eppure avevo ben intuito che dietro quella maschera si nascondeva una fragilità. Appena eletto alla Regione e poi nominato assessore ai lavori pubblici, ci intrattenemmo a parlare sulla sua nuova esperienza. Non era affatto contento. Soffriva la responsabilità. Aveva un sentimento di inadeguatezza. Avvertiva una forma di depressione nascosta. Superò quella fase. Ma so per esperienza personale che le faglie dell’anima si possono riassestare, ma mai rimarginare completamente. Sono ferite che continuano a vivere, a produrre, a tormentare. Non si cicatrizzano come la pelle del corpo. Non si acquietano, producendo nuovi tessuti. 

La vicenda di Bruno conferma questa mia dolente visione. E conferma anche una cosa vera e semplice. Che non vuole colpevolizzare nessuno. Ma semmai è una riflessione da fare collettivamente. In modo serio e definitivo. Cosa è diventata la politica anche nel Pd? La comunità politica un tempo curava le persone. Vale a dire, se ne prendeva cura. Giudicava ma recuperava. Promuoveva ma senza scandalose e improvvisate carriere. Era composta di aree di pensiero, ma mai di cordate acefale, ciniche ed escludenti verso gli altri. 

Nessuno, dentro tale andazzo, indovina veramente i pensieri dall’altro. Soli in una società frammentata, nei partiti siamo ancora più soli. Perché troppe volte divisi e in guerra. Una delle ultime volte che ho incontrato Bruno eravamo tra tanti amici. Maurizio Venafro, Michele Civita, Fabrizio Zanoni e Daniele Leodori. Ricordo questi. Era per festeggiare il suo matrimonio, al quale non ero riuscito a partecipare perché fuori dall’Italia. Lui ordinò il solito polpettone, che il ristorante sapeva essere il suo piatto preferito e abituale. Mi sembrava sereno, soddisfatto per la nuova vita che gli si parava di fronte. Sia lui che Daniele mi vollero far sentire l’affidamento che loro avevano nei miei confronti. Nel modo più disinteressato e generoso. Poi gli eventi politici sono rotolati in maniera imprevedibile e sbilenca. Con mesi di incertezze e di sconfitte. 

Non mi resta che abbracciare con tutto l’affetto possibile la sua cara moglie e tutta la sua famiglia. Dopo lo sforzo di questi mesi, in condizioni fisiche assai precarie, dopo le regionali e l’esito del congresso, sono partito. Non sarà possibile per me accompagnare Bruno al suo funerale. Ma non è la mancata presenza fisica che può anche minimamente scalfire la mia partecipazione a un dolore immenso e al rimpianto di non aver saputo aiutare non solo un collega di partito ma un amico, un compagno di lotta, una persona perbene sempre pronta ad aiutarmi e a sostenermi.

[Il testo qui riproposto appare sul profilo Fb dellautore]