«I programmi si vivono, prima ancora di dichiararli». È una delle massime famose di don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare nel 1919, ricordata numerose volte dall’amico Mino Martinazzoli. In effetti quello che i suoi avversari liberali e socialisti chiamavano con malcelato disprezzo «il pretino intrigante di Caltagirone» già come vice-sindaco della sua città e soprattutto come vicepresidente dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) aveva voluto e saputo dar avvio ad una rivoluzione civile e culturale, partendo proprio dal livello territoriale e politico più vicino alle popolazioni: il Comune, per salire poi alle Province e, soprattutto, alla Regione, che resta il suo capolavoro istituzionale.

Profondamente convinto della vivacità e sanità proveniente dai “corpi intermedi” tra il singolo individuo (facilmente schiacciato dalla pesantezza delle istituzioni del liberalismo del tempo, soprattutto in campo economico) e lo Stato, onnivoro e dominato dalle culture burocratiche e accentratrici, aveva visto nei Comuni e nella Regione quei corpi organici che – insieme alle famiglie, alle associazioni operaie, artigianali, contadine e ai nascenti partiti politici popolari di massa – potevano avviare, nel XX secolo, la modernizzazione dell’Italia, partendo proprio dal suo Mezzogiorno.

Si spiega così la grande importanza che, nell’Appello ai Liberi e Forti, viene riconosciuta alle autonomie locali. Nell’anno centenario appena concluso può essere ancora utile riprendere in mano il punto VI: «Libertà ed autonomia degli enti pubblici locali. Riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione, in relazione alle tradizioni della nazione e alle necessità di sviluppo della vita locale. Riforma della democrazia. Largo decentramento amministrativo ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro».

Si trattava di un vero programma politico di reimpostazione, dal basso, della macchina dello Stato, che doveva poter contare su forze nuove, su idee fresche e su masse popolari non più subalterne. Cominciando nei Municipi e, più avanti nel tempo nelle Regioni, a prendersi cura della cosa pubblica, con una efficiente e non corrotta amministrazione, giorno dopo giorno. Tanto grande era in lui la fiducia nelle istituzioni che dovevano essere create da indurlo a dedicare alla “Regione nella Nazione” la relazione politica di apertura del terzo Congresso del Ppi (Venezia 1921).

Non fu certo per caso che il fascismo trionfante dal 1925/26 soppresse le elezioni comunali; fece dei Comuni solo degli ingranaggi dell’amministrazione burocratica dello Stato e non volle sentir parlare di Regioni dotate di una qualche autonomia. Si dovette aspettare il 1948 perché la Costituzione repubblicana istituisse, almeno sulla carta, le Regioni e facesse riemergere l’autonomia delle comunità locali ordinate in Comuni, come con grande accuratezza si espresse la legge generale n. 142 del 1990.

II

Nell’attuale contingenza può, anzi deve essere rialzata la bandiera dei “corpi morali e politici” intermedi tra la persona e lo Stato.

Certo il linguaggio sturziano appare datato e va dunque aggiornato e reso appetibile alle nuove generazioni, che non sono abituate come noi all’idea delle “formazioni sociali” intermedie e al principio di sussidiarietà che avevano riportato alla ribalta i Padri costituenti espressivi del cattolicesimo democratico e sociale: Dossetti, La Pira, Mortati, Moro, Fanfani, Tosato, Amorth ecc.

Così come va ripresa confidenza e ostentato un certo orgoglio con l’idea di COMUNITÀ. A tale riguardo una buona lettura è rinvenibile nei testi che fanno capo ad Adriano Olivetti, ma anche a Paul Ricoeur. Ma non si tema di avere, con ciò, tutti e due i piedi nel passato. C’è anche, per fortuna, qualcosa di contemporaneo.

Una buona lettura è quella della Lectio magistralis del vescovo Franco G. Brambilla intitolata “I corpi intermedi, figure del noi sociale” (Vita e Pensiero 2019) che presenta ovviamente il volto cattolico, mirando a coniugare lo sviluppo della persona con la giustizia nella società.

Ma anche da parte laica – liberal-progressista – si avverte la necessità di affrontare le tre fiere che si aggirano nella selva oscura del mondo di oggi: il populismo becero, la globalizzazione finanziaria sfrenata e quel modo di produzione industriale che espelle il lavoro o lo sfrutta brutalmente.

Mi riferisco all’importante volume dell’economista Raghuram RAJAN, di origine indiana e che insegna a Chicago, intitolato “Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati” (Bocconi ed. 2019).

Mi limito al riguardo a citare due frasi scritte a commento di questo libro da parte di due Premi Nobel per l’economia. Robert SCHILLER afferma: «Questo libro è estremamente importante. La perdita di senso di appartenenza alle comunità locali e la conseguente ascesa del nazionalismo populista costituiscono un problema globale. In questo mondo sempre più cosmopolita è allora sorprendente che la soluzione del problema sia quella di aprirsi a “ciò che è vicino, ovvero la comunità, invece che a ciò che è lontano”». Amartya SEN, dal canto suo, ha parlato di: «Un’analisi incredibilmente acuta degli svantaggi che derivano dal trascurare il ruolo cruciale delle comunità per concentrarsi troppo sull’efficacia percepita dei mercati e dello Stato. Rajan esprime in modo forte e chiaro perché occorre rimediare urgentemente a tale disequilibrio».

III

Quella appena enunciata è la premessa culturale ed ideale di fondo. Ciò che vorrei mettere in luce sarebbe proprio l’incipit dell’Appello sturziano, portando la lancetta dell’orologio avanti di 100 anni ed aggiornando così quella alta invocazione: “LIBERTÀ E AUTONOMIA DEGLI ENTI LOCALI”.

Vale a dire, in che modo (e dopo quali e faticose vere riforme) sarebbe possibile che Enti politici territoriali autonomi – cioè Comuni e Regioni – possano far da leva per la riforma dell’amministrazione pubblica complessivamente considerata e dei pubblici servizi, che dovrebbero diventare entrambi sanamente partecipati e essere gestiti in senso convintamente anti-burocratico per favorire lo sviluppo economico, culturale, sociale e civile della Repubblica nel suo insieme. Ritornando a programmare e a coordinare l’azione di tante autonomie diverse comprese quelle del Terzo Settore: scuole, università, enti, imprese, cooperative industriali e commerciali profit e associazioni not for profit, volontariato e mondi relazionali, ecc. che fanno la peculiarità e la ricchezza di questo Paese.

Del c.d. Manifesto ZAMAGNI – e, in definitiva, di tutti gli sforzi di prospettazione di programmi di “area cattolica” che ci vengono incontro in questa contingenza – mi ha convinto particolarmente la sezione dedicata alle AUTONOMIE, declinata come spazi di libertà e assunzione di responsabilità delle formazioni sociali alle quali ho adesso accennato.

È questo un ulteriore tratto di un cammino non facile ma necessario per guadagnare la meta di una democrazia sostanziale.