Le vie del cristianesimo dopo la seconda guerra mondiale

 

La fede è passata attraverso la sfida dei totalitarismi, oggi rischia di “compromettersi” per effetto di interpretazioni manichee, con la divaricazione tra l’antico e il nuovo testamento. Invece Gesù precisa e annuncia la loro connessione. Chi riduce il messaggio del Signore Gesù a etica dellintenzione” o a una interpretazione individualistica o esistenzialistica nel senso dellideologia della demondanizzazione, si priva dellessenza della sua persona. Ugualmente chi interpreta Gesù come un ribelle fallito è fuori dalla verità.

 

Roberto Paolucci

 

Karl Marx affermava che il Vangelo aveva avuto già abbastanza tempo per mettere alla prova le sue possibilità. Ma l’efficacia storica del Vangelo è ancora tutta da scoprire. Con l’ascesa del terzo Reich e quella del comunismo in Russia il cattolicesimo europeo e il cristianesimo ortodosso entrarono in una crisi catacombale. Ma questo periodo giovò a entrambi, ritrovando forza e profondità. La perdita del potere era stata salutare. La speranza era rifiorita proprio nei luoghi della sua assenza terrena, nell’orrore dei campi dì concentramento e nei tribunali dello stalinismo comunista assassino.

 

La risultante fu quella di cercare di evitare ogni nuova commistione della fede con la politica. In relazione a tale programma  si è sviluppata una posizione dualistica per cui la fede cristiana non sarebbe orientata alla santificazione del mondo quanto alla sua radicale laicizzazione, desacralizzazione: nulla sarebbe di più sbagliato che voler edificare una società cristiana. Tra i più recenti esempi di tale posizione è il libro di autori francesi R. Luneau e P. Ladriere, Il sogno di Compostela, 1989, che in relazione all’incontro mondiale dei giovani a Santiago di Compostela accusava Giovanni Paolo Il di un romanticismo rivolto al passato, mirante a promuovere una restaurazione della cristianita’: demondanizzazione e radicale laicizzazione che sostennero l’impegno nei partiti marxisti. Tuttavia nel primo dopoguerra avevamo assistito alla nuova costruzione politica realizzata con piena coscienza a partire dai principi morali del cristianesimo, con piena indipendenza rispetto agli ordinamenti ecclesiali, ma mantenendo un consapevole legame con il centro spirituale della fede. È la generazione di politici che noi possiamo chiamare i veri padri dell’Europa: Adenauer, Schuman, De Gasperi, De Gaulle ed altri.

 

Tuttavia negli anni ‘60 emerge questa concezione di un mondo totalmente autonomo, mondano, che si potrebbe chiamare deviazione di tipo manicheo, chiamata “teologia politica o della liberazione”. Si fondava sulla concezione che Gesù di Nazareth non aveva da annunciare nulla di pertinente all’esistenza terrena, se non la profezia del “totalmente altro, come regno di Dio”. Questo era esattamente il programma della demondanizzazione e della totale laicizzazione. Ma la miseria sociale crescente nel mondo e la non rinunciabile responsabilità dei cristiani ha, per così dire, ribaltato il problema: “il regno di Dio” non sarebbe più al di fuori del mondo ma dentro il mondo, e la fede diventa così ideologia politica, la politica cioè avrebbe assorbito la fede.

 

Queste sono le due opzioni estreme che tengono in essere l’interrogativo sulla responsabilità sociale e politica della fede. Ma qual è la risposta di verità a queste due opzioni, demondanizzazione radicale laicista e reintegrazione del regno di Dio in senso politico di sinistra? L’autentica comprensione di questo problema sembra  dipendere dalla giusta comprensione del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Se si separano i due testamenti, andando contro l’interpretazione del Signore Gesù che parla di inseparabile continuità fra i due, si perde ogni relazione in riferimento alla realtà del mondo creato e Gesù diventerebbe un puro moralista. All’opposto, se la redenzione del nuovo testamento viene ridotta a esodo politicamente interpretato, e il regno di Dio diviene il frutto della liberazione, dell’azione liberatrice dell’uomo, Gesù Cristo perderebbe la sua propria identità. Se infatti facciamo riferimento al servo del Signore ( Is, 42, 1-4 e 5-9), di esso si dice, per tre volte in quattro versetti, che egli porta “il diritto” alle nazioni, lo stabilisce sulla terra, realmente proclama la legge.

 

“Il termine ebraico mispat, che si traduce con diritto, viene citato nella Bibbia ebraica ben 422 volte. Tanto che si può definire mispat come diritto, giustizia, legge, giudizio, o, più chiaramente, <norma data da Dio>, al fine di assicurare una società ben ordinata” ( Benedetto XVI).

 

Il popolo d’Israele è liberato e diviene nazione libera e sovrana per il fatto che esso è diventato una comunità di diritto attorno alla legge di Dio. La non libertà è l’assenza di legge e di diritto. Il dono della legge è lo specifico compimento della liberazione. Di una legge cioè che è realmente diritto, giusto ordinamento nei rapporti di relazione, in rapporto alla creazione e nella relazione al Creatore di tutte le cose, visibili ed invisibili, come recita il Credo nella Messa. La libertà dell’uomo può risultare solo nella giusta correlazione vicendevole delle libertà, e solo se esse attingono nella libertà di Dio, nella sua verità. Vera giustizia, giusto diritto possono scaturire solo quando il Dio vero è autenticamente riconosciuto e così anche l’uomo riconosce davvero se stesso, e in questo riconoscimento di Dio riordina l’essere nella comunione. Questo fu il motivo per cui il Sinai fu per Israele criterio e fondamento della sua libertà; e Israele perse la sua libertà nella misura in cui si allontanò dal diritto, ripiombando nell’assenza di legge e quindi nella schiavitù.

 

Il cuore della liberazione sta nel dono della legge del decalogo, secondo la disposizione di Dio ed è intimamente associata e alla ragione che si apre a Dio, e alla volontà che permette di passare all’azione. Purtroppo, poiché l’uomo nella sua esistenza storica conserva sempre la libertà di negarsi, la sua libertà dentro la storia resta sempre incompiuta. Ma dov’è la distinzione fra il primo Mosè e il servo di Dio? Il servo di Dio non comunica più la legge solo ad Israele, ma la porta alle nazioni (Is, 42, 1), e stabilisce il diritto a tutta la terra (Is, 42, 4). L’evento diviene universale e la salvezza coinvolge il mondo intero, riconciliato e raccolto nella comune giustizia dell’unico Dio.

 

Ma come avviene ciò? Forse per via di conquista o di sottomissione? No, perché “Egli non alza la voce, Egli soffre per la giustizia, Egli non contrappone all’ingiustizia nuova ingiustizia, ma l’assume nel suo patire ( “uomo dei dolori che ben conosce il patire“)”. Gesù precisa e annuncia questa connessione fra l’antico e nuovo testamento. E chi riduce il messaggio del Signore Gesù a “etica dell’intenzione” o a una interpretazione individualistica o esistenzialistica nel senso dell’ideologia della demondanizzazione, si priva dell’essenza della sua persona. Ugualmente chi interpreta Gesù come un ribelle fallito è fuori dalla verità.

 

Gesù non era né Barabba né Spartaco, ma se stesso, il Signore della storia: “L’intatta concretezza d’ogni prescrizione sociale e giuridica dei profeti e, sulla loro linea, l’intera legge, penetrata profeticamente ed estesa universalmente, sono realtà che gli appartengono a pieno titolo. La fede in lui travalica l’ambito sociale e politico, ma è proprio così una fede responsabile verso la società e verso il mondo. La fede comprende in sé il sociale non nella forma di un programma partitico bell’e fatto, di un compiuto ordinamento strutturale del mondo. Il sociale è presente nella fede, proprio nella modalità della responsabilità, cioè rinviato alla mediazione della ragione e della volontà. Ragione e volontà devono cercare di concretizzare e realizzare nelle mutevoli situazioni storiche la misura, rinfrancata dalla fede, della mispat (diritto) di Dio, sempre nell’ essenziale incompiutezza dell’umano agire storico, al quale non è dato di innalzare “il regno”, ma è affidato il compito di andargli incontro con l’opera della giustizia e dell’amor…La speranza della Fede si sporge sempre infinitamente oltre le nostre realizzazioni, essa attinge l’eterno; ma proprio il fatto che questa speranza ci è donata, ci da’ il coraggio, nonostante tutte le inadeguatezze, di riprendere sempre di nuovo la lotta per un ordine di giustizia, che è forma di libertà ed eleva un argine contro la tirannia dell’ingiustizia” (Benedetto XVI, 2018, da La Vera Europa, identità e missione).