L’ecumenismo al servizio della dignità dei popoli africani

In un continente come lAfrica, ricchissimo di risorse umane e materiali, ma oggetto di continua predazione, lecumenismo e il dialogo interreligioso possono rappresentare, se giustamente interpretati, una straordinaria occasione di riscatto.

Giulio Albanese

Le Chiese cristiane e tra queste quella cattolica hanno svolto in questi anni un ruolo importante nelle aree di conflitto disseminate nel continente africano. Anche se lontano dai riflettori, esse hanno impresso un rinnovato impulso al dialogo ecumenico: la ricerca della pace. Non è un caso se Papa Francesco ha deciso di visitare il Sud Sudan assieme all’arcivescovo di Canterbury e primate anglicano Justin Welby e al moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia Iain Greenshields. Ciò è stato reso possibile anche per l’impegno pregresso durante la seconda guerra civile tra Nord e Sud Sudan (1983-2005) del New Sudan Council of Churches, un organismo communionale che, a seguito dell’indipendenza del Sud Sudan è divenuto South Sudan Council of Churches. La sua attuale missione copre l’educazione civica, la pace e la riconciliazione, oltre a programmi di sviluppo. Un modo davvero profetico per testimoniare il Vangelo della pace all’insegna dell’ecumenismo.

È bene notare che questo dinamismo ha rappresentato una costante in molti Paesi africani dove in questi anni è stato versato sangue innocente a seguito di cruenti e persistenti stati di belligeranza. Ecco che allora la comunione tra le Chiese cristiane ha trovato la sua piena convergenza sui valori del Regno di Dio: pace, giustizia, solidarietà, bene comune, rispetto del creato e soprattutto il rispetto nei confronti della sacralità della vita umana. Emblematico è quanto sta avvenendo nel settore orientale della Repubblica Democratica del Congo e in particolare nella provincia del Nord Kivu, dove la guerra va avanti da oltre vent’anni. La deflagrazione di una bomba artigianale, il 15 gennaio scorso, nella chiesa pentecostale di Kasindi, ha causato la morte e il ferimento di numerosi civili. L’attentato è stato perpetrato da uno dei principali gruppi eversivi presenti nella zona, le Allied Democratic Forces (Adf), d’origine ugandese e di matrice jihadista. Le ragioni che rendono infuocato questo territorio sono legate alla presenza di numerose formazioni armate che seminano quotidianamente morte e distruzione. Si stima che nella regione siano attive circa 160 formazioni ribelli, con un totale di 20.000 combattenti. A parte l’Adf, sono presenti sul campo le Forces Democratiques de Liberation du Rwanda (Fdlr), di origine rwandese (antagoniste nei confronti del governo di Kigali), il Mouvement du 23 mars (M23) e la galassia delle milizie autoctone Mai-Mai.

Da rilevare che gli abitanti del Nord Kivu potrebbero essere a dir poco benestanti se potessero gestire le immense risorse minerarie del proprio sottosuolo: oro, cobalto, petrolio, manganite, cassiterite e coltan. Sta di fatto che il controllo delle terre e il sistematico sfruttamento delle risorse naturali, unitamente ai continui approvvigionamenti di armi e munizioni, consentono a miliziani, trafficanti e mercenari di perseguire una massiccia e devastante appropriazione e (s)vendita di un bene comune mai condiviso. Ecco che allora anche i jihadisti dell’Adf, strumentalizzando la religione islamica per fini eversivi, sono tra quelli che hanno il loro tornaconto. Peraltro, colpendo una comunità religiosa come la chiesa pentecostale, hanno inferto un grave colpo alla società civile locale — al cui interno opera anche quella cattolica — molto attiva nel promuovere la pace e difendere i diritti umani.

È importante sottolineare che in questo caso l’ecumenismo rivela il suo pragmatismo testimoniale proprio in quanto rende intelligibile la fraternità, facendosi interprete del messaggio evangelico e del conseguente magistero di Papa Francesco. Non v’è dubbio che queste Chiese di frontiera si collocano come avamposti nelle periferie, geografiche ed esistenziali, dove risiede il locus della missione. Dalla parte dei poveri. Si tratta dell’ecumenismo del sangue di cui ha parlato Papa Francesco; un indirizzo che trova la sua ricapitolazione in questa frase incisiva: «Se il nemico ci unisce nella morte, chi siamo noi per dividerci nella vita?» (Discorso al Movimento del Rinnovamento nello Spirito, il 3 luglio 2015). In questa prospettiva, essendo la sofferenza di così tanti cristiani nel mondo odierno un’esperienza comune, l’ecumenismo del sangue rappresenta per Papa Francesco addirittura il «segno più evidente» dell’ecumenismo oggi. (Messaggio in occasione del Global Christian Forum, 2 novembre 2015).

Ma proprio perché la missione dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo della pace è senza confini, la fraternità tra le Chiese cristiane dispiegate sul campo, in alcuni casi, si è spinta ben oltre il perimetro ecumenico, assumendo addirittura una connotazione interreligiosa. È il caso, ad esempio, dell’Interreligious Council in Sierrra Leone dove nell’ultimo decennio del secolo scorso si è combattuta una delle più sanguinose guerre nella storia dell’Africa post-coloniale. L’intento di questo organismo fondato sull’alleanza tra diverse confessioni religiose — componenti cattoliche e protestanti, islamiche e tradizionali — fu quello di promuovere un tavolo negoziale tra le forze filogovernative e quelle ribelli facendo leva sull’autorità etico-religiosa delle rispettive confessioni. Particolarmente significativo fu il contributo offerto dal mondo missionario cattolico nella figura di monsignor Giorgio Biguzzi, saveriano, allora vescovo della diocesi di Makeni, che tanto si prodigò nell’avviare un processo di riconciliazione nazionale. E cosa dire della testimonianza di monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, nel Nord Uganda? Anch’egli, soprattutto a cavallo degli anni ‘90 e 2000, si distinse, assieme ai leader cattolici, anglicani, ortodossi e musulmani del Nord Uganda — riuniti nell’organizzazione interreligiosa denominata Arpli (Acholi Religious Leaders’ Peace Initiative) — nel perseguire l’obiettivo di promuovere e sostenere una piattaforma negoziale con gli olum (in lingua Acholi «erba»), vale a dire i famigerati ribelli dello Lra (Lord’s Resistance Army) di Joseph Kony. Chi scrive, ebbe modo di apprezzarne lo zelo e la parresia in un contesto sociale segnato da violenze indicibili perpetrate nei confronti dell’allora stremata popolazione civile.

Da rilevare che la stessa sensibilità emerse palesemente attraverso l’impegno e la dedizione delle donne — cristiane, musulmane e animiste — in vasti settori della macroregione subsahariana. Proprio come avvenne nel corso della guerra civile sudanese tra le forze governative di Khartoum e gli allora ribelli dello Spla (Sudan People’s Liberation Army), in particolare a cavallo tra il 1995 e il 2005. Stiamo parlando delle donne della Sudan Women’s Alliance, della Sudan Women’s Association insediate nella diaspora di Nairobi (Kenya), della New Sudan Women’s Federation e della Sudan Women’s Voice for Peace, tutte organizzazioni femminili che diedero il loro contributo fattivo al processo di pace (in patria, ma anche in esilio), mostrando sicuramente più interesse dei loro mariti per le condizioni di miseria della popolazione civile sudanese stremata dalle violenze. Un impegno che molte di loro hanno proseguito recentemente nei due Sudan, divisi a seguito del referendum del 2011.

È importante sottolineare che l’impegno condiviso e profuso per la pace, prescindendo dall’appartenenza a questa o a quella Chiesa, a questa o a quella religione, rende intelligibile la fraternità universale tra i popoli tanto cara a Papa Francesco. È evidente che, nello specifico, per la Cristianità la posta in gioco è alta. Infatti le diverse Chiese e i singoli cristiani sono tralci originati dalla vite che è Cristo, tralci che tutti insieme costituiscono un’unica pianta, ma che hanno ciascuno la capacità di portare frutti propri e specifici. È l’architrave dell’ecumenismo: non si tratta di irenismo o relativismo religioso, ma di piena consapevolezza di poter imparare dagli altri dialogando, condividendo e insieme interpretando i segni dei tempi. In un continente come l’Africa, ricchissimo di risorse umane e materiali, ma oggetto di continua predazione, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso possono rappresentare, se giustamente interpretati, una straordinaria occasione di riscatto per tutelare la dignità di popoli oppressi dalle guerre e da quegli interessi egemonici su cui si regge il colonialismo moderno, versione riveduta e «scorretta» di quello che in passato legittimò la tratta dei popoli africani.

Fonte – L’Osservatore Romano – 3 febbraio 2023. (Titolo originale: La nuova frontiera del dialogo per la pace). L’articolo è qui riproposto per gentile concessione del direttore del quotidiano stampato nella Città del Vaticano.