«L’emancipazione alimentare dei popoli farà la pace dal basso» (L’Osservatore Romano).

Pubblichiamo per gentile concessione l’intervista a Pier Sandro Cocconcelli, ordinario di microbiologia degli alimenti della Facoltà di Scienze Agrarie e alimentari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. La sua tesi è chiara, ma al tempo stesso impegnativa: bisogna «progredire come comunità internazionale, senza bisogno di attingere al granaio del mondo attraverso una filiera che la guerra può paralizzare».

 

Chiara Graziani

 

Pier Sandro Cocconcelli è un microbiologo alimentare. Ordinario di microbiologia degli alimenti della Facoltà di Scienze Agrarie e alimentari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, si occupa di creare l’ambiente più salubre e indicato per fornire all’uomo il cibo che gli occorre: quindi di come gestirne produzione e trasformazione con cura, cautela e tecnologie adeguate e aggiornate.

Ma siccome il buon cibo, o il cibo buono, non è solo quello che non nuoce ma quello che ti permette di diventare una persona integrata e libera, inevitabilmente il professore si trova davanti interrogativi pratici ed etici che portano molto lontano se si segue un approccio integrale alla questione. Approccio integrale e multidisciplinare che è fra gli obiettivi del SACRU (Strategic Alliance of Catholic Research Universities, 8 atenei in quattro continenti) del quale è capofila proprio l’Università Cattolica.

«Produrre cibo sicuro, e sviluppo integrale dell’uomo — ci spiega Cocconcelli — richiede anche stabilità, equa distribuzione dei benefici, accesso ai diritti, ricaduta sulla promozione dell’intera società e non solo dei singoli individui. Passare dal paradigma del solo successo individuale — importante ma non sufficiente — a quello, invece cruciale, del successo comune. In un certo senso produrre il cibo buono, non solo il buon cibo, è un’opera di pace perché richiede attenzione al bene comune. E questo ci ricorda la crisi del grano bloccato nei porti dalla guerra in Ucraina, con l’Africa forzata ad importare per sopravvivere, quando potrebbe ridurre sostanzialmente la dipendenza da altre regioni aumentando la capacità di produrre cereali e altri prodotti della terra più adatti ai diversi territori ed alle loro caratteristiche. Oltre che alle esigenze nutrizionali della popolazione, che oggi presenta il tasso più elevato di malnutrizione. All’Africa rischia di mancare il grano russo-ucraino (il famoso granaio del mondo dal quale non esce il raccolto per il blocco dei porti) ma potrebbe fare molto di più da sola; diversificare e continuare il processo per rendersi autonoma. Progredire come comunità internazionale, senza bisogno di attingere al granaio del mondo attraverso una filiera che la guerra può paralizzare. Ma lo scenario africano è fra i più complessi ed accompagnare questo processo di emancipazione alimentare e umana richiede un impegno di lungo respiro e che tocca molti aspetti etici e politici».

La prima conseguenza della guerra, oggi guerra globale, è dunque il cibo cattivo. In tutti i sensi.

È senz’altro una delle conseguenze più gravi che raggiungono, anche molto lontano dal teatro del conflitto armato, le popolazioni più fragili. Dal 24 febbraio abbiamo visto quanto l’invasione di una nazione da parte di un’altra abbia un potentissimo effetto sistemico che arriva in aree lontane.

Professore, lei fa parte della rete universitaria cattolica internazionale SACRU . Un network di competenze, dalla sua a quelle sociali ed economiche, che ha deciso di affrontare la questione dell’accesso al cibo buono in maniera integrale. In che misura la questione della sicurezza e della salubrità alimentare è anche un problema di stabilità e di pace?

Mi lasci premettere che altre sono le mie competenze specifiche: io lavoro sulla sicurezza del cosiddetto food system, dal campo alla tavola. Ma, da Manzoni in qua ci è stato spiegato molto chiaramente a cosa porti il pane negato o scomparso. Dai tumulti di San Martino nel 1628, fino alle più recenti rivolte per il pane del 2011 nel nord Africa, la storia si ripete: fame, insicurezza, assalto ai forni.

Quella che oggi chiamiamo food security, la disponibilità e l’accesso al cibo, da sempre ha un impatto profondo sulla stabilità delle società e sulla pace. Ma anche la food safety, la salubrità del cibo di cui ci nutriamo, impatta fortemente sulla vita dei cittadini e può avere pesanti costi sociali: malattie alimentari, malnutrizione, aspettative di vita molto più basse. Una situazione che era già grave prima di questo conflitto e che, purtroppo, sembra destinata a peggiorare rispetto alle previsioni. La Fao stima che nel 2022 ci siamo ritrovati sotto questo punto di vista, ai dati di 10 anni fa. Siamo tornati indietro al 2012, dieci anni bruciati e le previsioni indicano un rilevante aumento delle persone malnutrite, fino al 10% della popolazione mondiale, a causa della pandemia Covid. A questo andranno aggiunte le conseguenze della guerra.

Crede che anche i Paesi più ricchi potrebbero essere raggiunti dall’insicurezza alimentare, visto che la guerra in Ucraina si abbatte su un sistema così profondamente interconnesso e globale?

Non ci aspettiamo, al momento, problemi di salubrità o di disponibilità del cibo nei Paesi più ricchi. Ma possibili ricadute sulla capacità di acquisto, di garantirsi l’accesso a una nutrizione sufficiente ed equilibrata, sì. Con tutte le conseguenze di cui parlavo prima.

La situazione, dunque, evolve in fretta e non in bene. La ricerca universitaria e cattolica in cosa può contribuire?

Compromettendosi in un grande progetto di istruzione e formazione integrale nei Paesi che ne hanno bisogno. La pianificazione della produzione alimentare, che è necessaria, non può che passare dalla formazione di persone — di personalità se non vogliamo usare il termine leader — che facciano delle loro competenze, lo ripeto integrali, il motore del successo umano della società cui appartengono. Persone in grado di indicare un percorso, non solo di diventare appetibili sul mercato estero del lavoro qualificato.

Ci faccia un esempio.

Anche due. C’è un bando, finanziato con fondi della Cei, con il quale la Cattolica offre di formare in tre anni i docenti delle università africane interessati ad un dottorato executive in scienze agrarie e alimentari. L’idea è formare i formatori con le migliori conoscenze scientifiche oggi disponibili. Perché siano in grado di trasferire competenze nelle loro società e di usare le tecnologie più innovative per uno sviluppo sostenibile. Uno dei gravissimi problemi che tiene l’Africa ostaggio del “granaio del mondo” e, quindi, della guerra, è anche il non potere trasferire ai Paesi africani le tecnologie che già ci sono ma che non possono ancora essere applicate alla produzione alimentare regionale e alle sue esigenze. E, ovviamente, non ci rivolgiamo solo agli atenei cattolici. Tutte le università africane, senza distinzione, possono concorrere al bando.

Il secondo esempio?

Fra i tanti mi viene in mente il professor Mario Molteni della mia università che con la fondazione E4Impact (Imprenditoria per l’Impatto) ha coinvolto università africane, in diciannove paesi di diversi, in un programma di formazione imprenditoriale per i giovani. Dopo due anni di master i partecipanti, più di un terzo donne, sono invitati a proporre un progetto operativo aziendale. Molto spesso si tratta di imprese nel settore agroalimentare. Ed il 60% dei progetti al momento presentati si è trasformato in un’impresa reale e tutte le imprese già presenti sono cresciute. Un caso di formazione dei singoli che porta benefici a tutta la comunità, che è l’obiettivo di ogni progetto in campo.

Scienze dell’alimentazione, agraria, economia. Un approccio integrale al problema del cibo.

Non posso non ricordare anche l’aspetto etico della questione. La difficoltà sul terreno è il rapporto di interazione fra sistema politico e sociale e gli investimenti che si fanno in quel contesto. Esistono buone e cattive prassi. Il caso del professor Molteni, formazione e promozione a partire dal basso, è sicuramente un caso scuola di buona prassi. Vede, l’Africa, e non solo, ha bisogno di una pianificazione che è mancata sulla capacità di garantirsi sicurezza alimentare, intesa in entrambe le accezioni security e safety. E per far questo occorre imparare a produrre in modo efficiente, aumentando la quantità di cibo prodotto e, allo stesso tempo, sostenibile, senza aumentare l’impatto negativo sull’ambiente, deforestando o sprecando acqua. È poi essenziale mettere in piedi filiere sicure e salubri di produzione e trasformazione degli alimenti, riducendo il tasso di malattie alimentare che ancora oggi colpisce in modo pesante le popolazioni dei paesi a basso reddito, in particolare i bambini. Questo non può andare avanti. E solo una formazione integrale, la migliore istruzione interdisciplinare possibile, offerta partendo dal basso può cambiare le cose. Dobbiamo formare non solo bravi agronomi e tecnologi alimentari esperti delle tecnologie più innovative ma che nel contempo siano dotati di competenze trasversali per gestire la complessità del sistema alimentare. Su questo ho una ferma convinzione.

Le avranno obiettato che si tratta di un processo molto lungo.

Certamente. Ma occorre cominciare. Ed ora è il momento. Le conseguenze della guerra ce lo dimostrano. 

 

Fonte: L’Osservatore Romano, 11 giugno 2022.