La DC e l’esperienza del centrosinistra. Politica e cultura nei Convegni di San Pellegrino.

Tra il 1961 e il 1963 si svolsero a San Pellegrino quelli che Moro, allora segretario della Democrazia Cristiana, definì convegni “di studio” e “meditazione”. La sfida della programmazione - idea cardine del centrosinistra - contemplava il grande sussulto della cultura democratica cristiana.

Alla fine del 1963 si formò il primo governo «organico» di centrosinistra presieduto da Aldo Moro. A circa sessant’anni da quell’importante svolta nella vita della nostra Repubblica si sono ripresi o avviati vari studi sui problemi aperti dal coinvolgimento del PSI nell’area di governo e sulle diverse reazioni politiche suscitate dall’evento in tutti i partiti e nell’opinione pubblica. Nella Dc i promotori più importanti della nuova esperienza furono i maggiori leader di quella stagione, Amintore Fanfani e Moro, i quali condussero la complessa operazione sia sul piano politico, superando, almeno momentaneamente, numerosi conflitti interni ed esterni al partito (come ha ben ricostruito di recente Paolo Pombeni), sia sul piano culturale e programmatico organizzando tre successivi Convegni a San Pellegrino (uno per anno tra il 1961 e il 1963). Moro specificò fin dall’inizio la necessaria natura di «studio» e di «meditazione» di tali Convegni perché in quella stagione era in gioco il futuro del Paese prima ancora di quello della Dc. Per conservare a quest’ultima il ruolo-guida nel governo occorreva uscire dalla «cristallizzazione» della sua immagine e, soprattutto, degli indirizzi politici perseguiti fino ad allora attraverso un’approfondita riflessione sulle necessarie innovazioni del sistema politico e di quello economiche richieste dalla nuova fase della modernizzazione postbellica.  E l’impresa non si presentava affatto facile di fronte a una situazione sociale fortemente contraddittoria. Da un lato, la politica del centrismo produceva ancora condizioni di straordinaria crescita economica (il cosiddetto “miracolo” o “boom economico”) e gli italiani erano orgogliosi del fatto che gli analisti del Financial Times avevano appena attribuito alla lira (nel 1959) il simbolico Oscar e il titolo di “moneta vedetta” in campo internazionale. Dal lato opposto, non si era ancora realizzata, come lo stesso Moro denunciò, una definitiva «conciliazione delle masse con lo Stato democratico»: conciliazione da realizzare solo con il concorso dei partiti popolari dotati di programmi specifici sulle riforme e sulla difesa del pluralismo istituzionale e sociale. Un comune indirizzo politico doveva fondarsi sulla convinta salvaguardia del ruolo regolativo dello Stato: di quel ruolo che andava preservato dalle ingerenze «stataliste» cui facevano appello, in modo diverso, le sinistre estreme e le destre. 

Nei Convegni di studio furono coinvolti molti esponenti della Dc, della CISL, delle Acli e un significativo gruppo di intellettuali, per lo più giovani accademici cattolici, non presenti nella vita del partito o del tutto estranei ad essa, ma sempre collegati ai circuiti culturali nazionali e internazionali più attenti alle nuove strategie democratiche. Fu un tentativo che presentava importanti tratti di originalità perché fu garantita a quegli intellettuali la libera espressione delle proprie posizioni mentre il problema dei rapporti tra intellettuali e partiti viveva una fase critica in altre formazioni politiche e specie nel Pci. Avevano abbandonato già 1952 il partito togliattiano alcuni intellettuali cattolici, tra i quali Felice Balbo e Giorgio Ceriani Sebregondi, impegnati nello studio dei conflitti tra gli sviluppi capitalisti indotti dalle nuove tecnologie industriali e le esigenze del mondo del lavoro. Soprattutto, però, dopo la pubblicazione del “rapporto segreto” di Kruscev e dopo i “fatti d’Ungheria”, scemava la gramsciana fisionomia dell’«intellettuale organico» agli indirizzi del partito e si registrarono varie fuoruscite dal partito e tra queste rilevante fu quella di Antonio Giolitti, entrato in seguito nel PSI per affermarsi come protagonista della programmazione economica nei governi di centrosinistra.

I Convegni di San Pellegrino evocavano l’esperienza dei giovani intellettuali cattolici che elaborarono, tra 1943 e il 1945, il Codice di Camaldoli, dove si abbandonarono le esperienze politiche del passato e si indicò in modo analitico tutta la gamma di interventi necessari e possibili (nell’economia, nella vita della società e dello Stato) cui era chiamato nella stagione postfascista un futuro partito cattolico. Il collegamento con quell’esperienza culturale, e con altre (come quella di “Cronache Sociali” di Dossetti), trovava una qualche evidenza nel fatto che anche a San Pellegrino campeggiavano, esponenti delle precedenti esperienze culturali, quali lo stesso Moro e  Pasquale Saraceno, uno degli innovatori dei canoni tipici dell’economia industriale. 

Nei Convegni di studio per superare, come aveva richiesto Moro, la «cristallizzazione» dell’immagine della Dc furono chiamati due storici giovani, ma già ben accreditati a livello accademico, Gabriele De Rosa ed Ettore Passerin d’Entrèves, i quali, respingendo le interpretazioni di matrice marxista di quegli anni, mostrarono che sul piano storiografico non si trattava di spiegare i successi elettorali del partito di De Gasperi rintracciandoli solo nella tradizione organizzativa delle associazioni cattoliche, bensì di riconsiderarli in riferimento all’intera esperienza del cattolicesimo politico che con i suoi indirizzi laici e programmatici rimaneva essenziale per legittimare il ruolo della DC anche nel governo delle trasformazioni in corso. Sulla questione del rinnovamento del partito, ma sul piano giuridico, intervenne anche Leopoldo Elia avviando una serie di considerazioni che avrebbe sviluppato in seguito, e, cioè, che nelle trasformazioni in atto era prioritario per la Dc, mantenere la sua «profonda legittimazione nell’opinione pubblica» cattolica e laica. 

E la questione della legittimazione cattolica in quella stagione non era affatto secondaria, perché con l’enciclica sociale Mater e Magistra di Giovanni XXIII del 1961 e con l’apertura nel 1962 del Concilio Vaticano II si andava prospettando  che la presenza dei laici cattolici nella vita pubblica (in Italia, ma non solo) non si esprimesse più e in modo automatico attraverso le appartenenze politiche del passato, bensì andasse ripensata come impegno più vasto e libero nella società alla luce di una rinnovata ecclesiologia e degli indirizzi espressi dalla dottrina sociale della Chiesa. Di interpretare le ragioni di tali novità a San Pellegrino si fece carico il dossettiano Achille Ardigò che non ebbe dubbi nel rilevare l’inadeguatezza divenuta pressoché cronica delle politiche sociali democristiane: la Dc non riusciva a governare la nuova fase dell’accumulazione dei profitti prodotta dal capitalismo tecnologicamente avanzato per salvaguardare i princìpi di sussidiarietà e di solidarietà iscritti nella dottrina sociale della Chiesa. Anche Livio Labor e Carlo Donat Cattin sottolinearono le gravi condizioni in cui si realizzava la distribuzione del reddito nel mondo del lavoro fino a stravolgere ogni equilibrio sociale.  Analoghe preoccupazioni furono espresse da Moro nella relazione introduttiva al Congresso di Napoli del gennaio del 1962, nota più per la sua lunghezza che per i suoi contenuti. Il Segretario nazionale della Dc richiamò con forza il dovere di tutti i partiti (e, in particolare del partito cattolico) di lavorare per il progresso economico, occupandosi, in modo prioritario, delle riforme politiche e amministrative mirate ad affermare la dignità dei singoli e delle comunità senza consentire che attraverso lo Stato si minacciasse la loro «libertà politica e civile».

A San Pellegrino la convinzione che emerse progressivamente, pur ostacolata da varie opposizioni, fu quella che solo con la nuova formula del centro sinistra si potevano mettere in cantiere profonde riforme economiche per realizzare un aggiornamento, costituzionalmente garantita, dell’intero sistema politico. E, in effetti, negli stessi anni in Italia, pur di fronte alla percezione da parte delle fasce sociali medie e alte di un benessere crescente, a vari analisti non sfuggiva il rischio procurato dal lento sfaldamento della indispensabile coesione sociale nella ricostruzione postbellica. Le stesse politiche di Welfare, con un’applicazione tutta nazionale dell’assistenza pubblica, avevano certamente creato sul piano giuridico nuove ma pur limitate forme di «cittadinanza democratica» e di «cittadinanza sociale»: cioè di quelle forme sociali intese, secondo l’interpretazione allora corrente di Thomas Humphrey Marshall (Citizenship and social class del 1950), come condizioni per un «eguale godimento dei medesimi diritti in specifiche comunità di appartenenza». A San Pellegrino, però, si chiarirono le illusioni create da erronee percezioni della situazione e, anche sulla base dei risultati di un dibattito internazionale, non solo accademico, si arrivò a contestare il dominante modello economico keynesiano, nel quale si enfatizzava l’intervento economico dello Stato nelle situazioni critiche vissute dalle popolazioni in quel dopoguerra. Anzi si iniziò a denunciare una sorta di eterogenesi dei fini indotta delle stesse politiche di Welfare e, cioè che la protezione da parte dello Stato, contrariamente alle aspettative, finiva per offrire non più un godimento generalizzato dei diritti sociali, bensì l’affermazione di interessi specifici e il loro uso privilegiato solo da parte di frazioni della società.

Su tale inedita contestazione si attestò, nel corso del Secondo Convegno di San Pellegrino un giovane economista, Beniamino Andreatta, il quale si disse convinto che:

Con l’inizio degli anni Sessanta l’esigenza di una pianificazione globale della nostra economia si è posta al centro dell’interesse delle forze politiche, avendo a suo fondamento un duplice giudizio critico: insufficienza degli schemi di politica economica applicati durante gli anni Cinquanta, ed insufficienza del nostro sistema che, pur nel suo imprevedibile vigore, ha portato a risultati che appaiono sotto molti profili insoddisfacenti. 

Vantando un’esperienza internazionale di studi nonché rapporti con importanti cenacoli di studi economici non solo cattolici (per es. con quello raccolto intorno a Giolitti), Andreatta non ebbe timori a usare il termine «pianificazione», piuttosto estraneo al lessico economico democristiano, per richiamare il dovere dei partiti, e prima di tutto della DC, di provvedere a una convergente e profonda innovazione delle formule governative per il progresso della società. Su un’analoga linea e con riferimenti più specifici alle esigenze del Paese, si espresse Saraceno. Questi, come è noto, dopo la lunga esperienza nell’IRI a fianco di Donato Menichella, nel 1946, era stato erede e interprete del cd. “schema Vanoni” e, assieme ad altri, fu tra i fondatori dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), cui aderirono le principali banche e industrie italiane interessate a investimenti nel Sud. Dopo la Svimez partecipò nel 1950 alla creazione della Cassa per il Mezzogiorno. In tale percorso Saraceno si pronunciò in più sedi a favore di un’economia mista. Di qui l’intensificarsi dei suoi rapporti con Moro e con la quota della cultura riformista formatasi nell’IRI, in particolare con La Malfa. E, infatti, qualche mese prima del suo intervento a San Pellegrino era stato chiamato a collaborare alla stesura definitiva della Nota aggiuntiva che proprio La Malfa presentò in Parlamento il 22 maggio del 1962 e che divenne uno degli schemi teorici di riferimento della politica economica dei governi di centro sinistra.

A San Pellegrino Saraceno pose al centro della sua lunga relazione, arricchita da varie tabelle statistiche, la questione generale e non risolta delle «democrazie non comuniste»: cioè, quella di un rapporto corretto e proficuo, pur presente ed enfatizzato dal costituzionalismo postbellico, tra l’azione dello Stato e quello del mercato per lo sviluppo dei diritti in tutte le fasce sociali. Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, a suo avviso, l’intervento dello Stato era stato viziato da una limitata ed erronea valutazione dei dislivelli economici presenti in un terzo di tutte le regioni e non solo nel Mezzogiorno, cercando di risolvere la storica arretratezza del Sud con frammentari interventi pubblici che avevano prodotto l’unico risultato di lasciarlo fuori dal circuito economico nazionale.

Saraceno respingeva, quindi, la tradizionale visione “dualistica” (presente anche nella cultura economica dei cattolici) e non esitava ad avvertire che era l’Italia nel suo complesso da considerare ancora un Paese in via di sviluppo, da trasformare con politiche economiche diverse secondo i territori cui si applicavano ma convergenti nella realizzazione della comune e costante crescita dei diritti sociali. In tale direzione la maggiore questione macroeconomica presente non era quella che, secondo i postulati di Keynes, si risolveva stimolando, attraverso l’intervento pubblico, le domanda di emancipazione o di benessere emergenti dai vari territori, perché non esisteva un apparato produttivo in grado di soddisfare bisogni anche profondamente diversi. Piuttosto era urgente reperire e indirizzare ogni risorsa disponibile per incrementare l’offerta produttiva dell’intero sistema industriale, pubblico e privato, equilibrando le regole del mercato con quelle del lavoro e del credito. Era quella l’impostazione cui Saraceno si ispirò in quegli anni Sessanta, per indirizzare le scelte di politica economica della Cassa per il Mezzogiorno.

Alle soglie degli anni Sessanta si andarono esaurendo le prospettive con cui era sorto il centro sinistra. Le ragioni furono eminentemente politiche ma già nel 1965 Leopoldo Elia riprendeva il suo intervento di San Pellegrino e avvertiva che in Italia tutti i partiti non erano più in grado «di conciliare quelle funzioni di rappresentanza e di mediazione tra il pluralismo sociale e l’autorità statale che corrispondono alla loro vocazione di fondo». L’anno successivo Mortati, uno dei democristiani che furono protagonisti nei lavori della Costituente, constatava che era da considerare ormai conclusa la stagione nella quale aveva prevalso l’immagine dottrinaria del Parteienstaat, con tutti i suoi effetti politici, perché in Italia, e non solo, i partiti invece che «tramiti» erano divenuti un «diaframma fra il Paese e la società».  

[Relazione svolta da Nicola Antonetti, Presidente dell’Istituto Sturzo, in occasione del convegno “Governo dell’economia e programmazione. L’esperienza del centrosinistra (1961-1963” – 9-10 febbraio 2023, Palazzo Velentini, Roma]