Ci sono almeno tre dati che gli opinionisti dei talk-show televisivi (così frizzanti se comparati alle vecchie, noiose tribune politiche) dovrebbero sempre tenere presenti mentre discettano del “particulare” dell’oggi: i 67 governi in 70 anni di repubblica, la bulimia legislativa generata dal desiderio del governo di turno di ricominciare tutto da capo, come in una sorta di gioco dell’anno zero, e infine la smania di protagonismo dei ministri di lasciare un ricordo del proprio passaggio.

Questo è il dato più soggettivo ma non certo il meno influente sui deludenti risultati che si riassumono in alcuni indici eloquenti: il debito pubblico irreversibile, l’evasione fiscale irrefrenabile, la stagnazione economica, la decadenza del ceto medio, la precarizzazione del lavoro, la fuga dei cervelli e dei pensionati all’estero, compensata da una immigrazione che – absit iniuria verbis – produce solo problemi e un diffuso disagio sociale. Un minestrone rancido di problemi rimescolato in casa e maldigerito dall’Europa, di cui siamo sempre osservati speciali.

Da alcuni anni ci si preoccupa più di elargire contentini simbolici piuttosto che immaginare modelli organici di ripresa e sviluppo, attraverso riforme radicali sempre rinviate e giocando sulla sponda dei decimali sperando che producano miracolosi effetti moltiplicatori. E’ la politica dei bonus, delle mance e delle elargizioni mirate che avrebbe l’ambizione di compensare deficit di status e riappianare la distribuzione delle risorse. Anche in questa fase che precede il DEF se ne parla, ma nel caleidoscopio dei provvedimenti ipotizzati c’è più retorica che sostanza: una storia di lunga deriva che mi ricorda un aneddoto personale. Nei primi anni 90 (del dopo tangentopoli) incontrai – l’occasione fu casuale, allora vivevo a Genova – un vecchio amico che di lì a breve avrebbe assunto un importante incarico in uno dei tanti governi del cambiamento e della rinascita.

Fu in quella circostanza che mi anticipò una profezia che si è poi avverata puntualmente: “Il problema degli anni a venire sarà come mettere nel modo più indolore le mani nelle tasche degli italiani”.
Il progetto si è realizzato e pare indirizzato verso un demagogico livellamento sociale: per far ripartire l’ascensore della crescita, fermo al piano terra e con le ragnatele e per alzare i redditi bassi si è finito per imbastire la più pesante e punitiva campagna di annientamento della borghesia e del ceto medio produttivo: si va dai dipendenti pubblici a reddito fisso – li chiamerei “bancomat umani” – agli imprenditori che tentano di spiccare il volo ma sono frenati dalla palla al piede di una burocrazia bizantina, ai pensionati perennemente sotto la lente di ingrandimento del fisco che li considera imputati sì, proprio loro, dopo 40 e più anni di lavoro, di privilegi inaccettabili.

Colpa della politica birbona e disonesta che ha stabilito certe tassonomie sulle pensioni d’oro, nella quale rientrano praticamente tutti, eccetto coloro che vivono alle soglie della povertà. Ed ecco che le politiche compensative per redistribuire i redditi e spezzare il gap tra ricchi e poveri (e qui ci vorrebbe il virgolettato) riesumano logiche corporative per status, età e professioni: l’Italia è un Paese di culle vuote? Ecco subito il bonus bebè, da protrarsi fino ai 18 anni. I giovani non studiano e non lavorano, non leggono e passano ore in discoteca o a farsi i selfie? Pronto un bonus speciale per loro. La scuola lascia a desiderare perché i docenti sono demotivati? Da quattro anni li si incentiva con un bonus di 500 euro: spendibile per libri, computer o spettacoli teatrali.
Ma a prescindere da questa fattispecie , la politica dei bonus sembra dispendiosa e non strutturale.

Non vengono richieste fatture o scontrini ma solo dichiarazioni, se del caso.
Senza contare che prima di tutto questo viene calcolata in 80 euro la misura dell’obolo di Stato, in larga parte recuperato in sede di dichiarazione dei redditi. Aggiungere 80 euro al reddito familiare significa attribuire a questa cifra una funzione compensativa di disuguaglianze sociali ben più profonde, che vanno “oltre” il reddito lavorativo, perché afferiscono ad una condizione di status, di censo e persino di classe sociale, senza considerare variabili come la casa, l’affitto, la composizione del nucleo familiare, le spese scolastiche e quelle per la salute. Ricordo una parlamentare che si era presentata in TV con uno scontrino chilometrico per dimostrare che 80 euro di spesa risolvevano tanti, ma proprio tanti problemi delle famiglie a reddito medio-basso.

Il capolavoro del teorema della resurrezione dei senza lavoro attraverso la dazione di denaro pubblico arriva infine con il reddito di cittadinanza: la sperimentazione è partita ma è avvolta in una nebulosa che ingloba sia i navigator, retribuiti ormai da mesi (come sono stati selezionati? Da quali esperti vengono formati? Cosa stanno facendo per scoprire posti di lavoro in un Paese in cui il lavoro latita e non si può inventarlo? Come sono cambiati i centri per l’impiego, gli uffici finora più inutili della P.A.?) che i naviganti, cioè coloro che ne beneficiano in media ben al disotto degli ipotizzati 780 euro e solitamente in modo del tutto svincolato da un lavoro se pur a termine. A seguito di controlli della GDF su 982 mila percettori del reddito (rispetto a un milione e mezzo di domande presentate) solo una minima parte ha attivato un patto per il lavoro. Da un monitoraggio delle Regioni emerge che a fronte di 200.795 titolari del reddito e dopo 69.234 colloqui effettuati solo 49.896 risultano i patti per il lavoro sottoscritti. Secondo dati forniti dall’INPS l’importo medio erogato è di 520 euro per il RdC e 214 euro per la pensione di cittadinanza. Il quotidiano Il Mattino del 27/10 u.s. riporta casi di spacciatori, contrabbandieri ed usurai che arrestati o inquisiti a motivo delle attività illecite risultavano percepire il RdC, senza che fosse stato esperito un adeguato controllo di tipo amministrativo.

In un Paese afflitto dalla piaga dell’evasione fiscale occorre dunque ancora una volta contare sui controlli della Guardia di Finanza per verificare la liceità della dazione di Stato non funzionando modalità di verifica a posteriori nell’ambito del “sistema reddito di cittadinanza”?
Tutto questo dimostra che la politica dei bonus a pioggia non funziona e finisce per creare nuove sacche di ingiustizie sociali o per diventare una forma legiferata di spreco del denaro pubblico.
In secondo luogo evidenzia l’incapacità della politica di elaborare riforme e misure lungimiranti di medio –lungo periodo capaci di ipotizzare modelli sociali sostenibili, attuando una politica di redistribuzione dei redditi che non produca solo omologazioni verso il basso.

Ma il dato più eclatante – come emerso dai primi monitoraggi e dall’incrocio dei dati- riguarda la totale assenza di meccanismi di controllo sull’utilizzo dei bonus.
Non esiste un organismo amministrativo in grado di verificare a posteriori se i bonus elargiti sono stati correttamente utilizzati.
Un vulnus normativo grave, considerato che si tratta di denaro pubblico.
Una pessima immagine che la politica restituisce quando chiede rigore e punta l’indice sui privilegi di alcune categorie di cittadini.

Una sorta di finanza allegra e irresponsabile che non possiamo permetterci: basterebbero dei controlli a campione per accertare quale via di spesa e di utilizzo hanno preso i bonus elargiti, una verifica a posteriori con tanto di documentazione da esibire.
Ma la cosa più singolare è che non ne parli quasi nessuno: come se applicare le regola del “buon padre di famiglia” nella gestione delle finanze pubbliche fosse una sorta di fastidiosa e indebita intromissione e non un dovere morale da assumere.