Luana D’Orazio, masticata da un orditoio a 22 anni.

Cecilia Lavatore, scrittrice e docente, riporta l'attenzione sulla storia della giovane operaia morta in una fabbrica tessile della provincia di Prato. Il testo è tratto dal suo libro "Mia sorella è figlia unica", edito da Red Star Press, dal 22 marzo in libreria.

Cecilia Lavatore

Maggio non è un buon mese per morire, lo trovo abbastanza inopportuno, dovrebbe essere vietato dalla legge, si dovrebbe rimandare la faccenda a data da destinarsi. A maggio si nasce, non si muore. 

Ci sono altri mesi per combinare cose del genere. Ad esempio, novembre, secondo me, è il mese più indicato, ma anche marzo: con gli ultimi strascichi d’inverno, di giardini soli, di rami nudi, di nebbia compressa, di rabbia fitta, di silenzi fermi e buio presto. Ma a maggio no. 

A maggio si nasce, non si muore. 

E invece, Luana D’Orazio, ventidue anni e cento quaranta battiti al minuto, è morta a maggio, il terzo giorno del mese dei fiori, col cielo terso a Montemurlo, masticata in provincia di Prato da un orditoio che l’ha inghiottita in 9 secondi:18 respiri sempre più lenti.

Poi niente. Poi niente. Poi niente.

Era il 2021.

Luana aveva un figlio piccolo tutto per sé, una stanza in affitto per lui, un contratto da apprendista, le rate della macchina ancora da pagare, (accidenti!), sette pentole in acciaio Inox, un bel materasso, uno straordinario sorriso, una sorta di  vita davanti, una divisa blu oceano, dei sogni.

Un posto in fabbrica a disintegrarli.

A non farla accadere, a gettarla oltre una saracinesca bassa assai, ossia manomessa, per produrre efficacemente l’8% di panni in più, di ammassi di fibra, di intrecci incolore, inodore, indolore, di luridi stracci aderenti alla pelle da riempire di sudore e poi usare per lavare quando non ci entrano più sui fianchi, quando vai a vedere che sotto sotto ci sbattono, quando alla fine li abbiamo rovinati, quando ci sono andati a noia.

Così poco è costata Luana.

Prima che accadesse questo ennesimo “incidente” sul lavoro, in quei giorni strani di pandemia e altri orrori, io non avevo mai sentito la parola “orditoio”. 

Infatti, non so proprio come sia fatto un macchinario tessile. Non saprei da dove cominciare per spiegarlo. Non so nulla di fabbriche. 

Io ho studiato altre cose.

Magari so bene com’è fatto il reparto donna di Zara, so distinguere una maglia di cotone da una in poliestere, so indovinare la mia taglia senza passare per le luci dei camerini, (chi non le detesta?), so smacchiare le macchie di caffè e anche di vino, (ma non rosso), so come acquistare abiti online. Alle volte so perfino abbinarli. 

Ma non so come si fanno.

Cioè, non lo so com’è fatto un orditoio.

So bene che l’industria tessile è stata il motore del Nord Italia, so che la florida epoca dei Comuni è nata dentro i laboratori di trame, tra gomitoli e potere, reti strette e commerci, so che il mercantilismo e il capitalismo sono iniziati nei filatoi d’Europa, so che le donne nella letteratura hanno sempre amato cucire, per definizione, una loro realtà nella quale possibilmente a maggio si nasce, non si muore.

Ma non lo so com’è fatto un orditoio.

Forse lo avrei potuto chiedere a Luana che mi è tornata in mente oggi quando un mio studente me l’ha rinominata a lezione. 

Insegno in un professionale e parlavamo di un incidente simile avvenuto in una vetreria ieri notte.

F. ha detto “che poi se non stai attento finisci schiacciato come un insetto. Prof, lei se la ricorda Luana?”.

I due proprietari e il manutentore, accusati di omicidio colposo e rimozione dolosa di cautele antinfortunistiche, hanno patteggiato pene lievi lievi come è la terra per chi se ne va. 

Grosse somme di denaro sono state offerte ai familiari della vittima. E rifiutate con sdegno.

Sì, ho risposto, certo che me la ricordo Luana.