Per colpa o per merito della informazione in tempo reale, stiamo seguendo in diretta dal 21 febbraio l’evoluzione del “coronavirus”, di recente definito ufficialmente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come pandemia sanitaria. Gran parte dell’opinione pubblica l’ha seguita nelle prime settimane sostanzialmente come cronaca in diretta di un evento imprevisto, imprevedibile quanto a durata ed effetti nefasti, ma gradualmente l’apprensione ed anche la paura, con il trascorrere dei giorni, si sostituiscono alle prime reazioni di sottovalutazione.

Almeno in Italia niente che riguardasse l’epidemia è stato ignorato o nascosto, anzi! E tutti gli interessati, scienziati, medici, giornalisti, responsabili delle Istituzioni nazionali e locali, hanno mostrato da subito attenzione preoccupata per quello che poteva accadere nel nostro Paese, oggettivamente impreparato.
Eppure c’è stato chi, inutilmente, ha sottolineato nel recente passato, le gravi carenze di un sistema scolastico pubblico che non prevede momenti educativi circa l’educazione civica, quella sanitaria, quella per le emergenze, nella presunzione che di aspetti così fondamentali per la formazione della persona, debba o possa farsi carico esclusivo la famiglia, con il risultato di trovarci di fronte ormai la quasi generalità dei giovani totalmente impreparati su tutto ciò, ed anche privati ormai da quindici anni, dello screening sanitario di massa che, almeno per i maschi, era garantito dalla visita per il servizio militare obbligatorio.

Non altrettanto rapida è stata la comprensione del rischio in arrivo, o almeno non è stata tempestivamente manifestata reattività verso di esso, fatte salve sparutissime eccezioni, da parte dei c.d. corpi intermedi: partiti, sindacati, categorie imprenditoriali e professionali, realtà del volontariato ed associative in generale, mondo cattolico compreso. Mai è stata così marcata la distanza tra Paese ufficiale e Paese reale e ci sono voluti diversi giorni prima che l’opinione pubblica realizzasse che non si trattava di una telenovela o di una partita giocata altrove, ma di un pericolo grave e reale per tutti e per tutto, per la prima volta nei 74 anni dalla nascita della Repubblica. Come si spiega altrimenti la folla di ragazzi in giro per Roma nei primi giorni di chiusura delle scuole o i pub affollati ed i treni presi d’assalto, finché non sono intervenute misure più drastiche?

Per quanto mi riguarda, ho seguito l’emergenza coronavirus con attenzione fin dal primo momento, cercando di capire se ci fosse qualche relazione di causa effetto con l’inquinamento ed il degrado ambientale, ma pur avendo letto non dico tutto, ma tanto sull’argomento, ho per ora trovato solo ipotesi che riconducono le cause a smog, polveri sottili, impianti di areazione non puliti, quanto alle cause che hanno favorito l’attecchire del virus in alcune zone, e ad eventi di massa, incertezze ed errori iniziali in alcune strutture sanitarie e qualche realtà amministrativa o produttiva locale, quanto alle cause che hanno favorito la trasmissione massiva del virus.

E proprio perché non disponiamo ancora di prove scientifiche o almeno analisi accurate, in merito alle interrelazioni ambiente/epidemia, mi sono limitato a porre, anche in uno scritto pubblicato sul Domani d’Italia del 19 marzo, questa domanda che tengo aperta: “C’è qualche spiegazione per il fatto che la pandemia si è sviluppata, nella fase iniziale, sia in Cina che in Italia, nelle zone più industrializzate dei due Paesi? Qualcuno può spiegarci se c’è una qualche attinenza tra sviluppo del coronavirus e condizioni climatico-ambientali delle due zone?”. Per ora sappiamo solo che, grazie alla chiusura delle attività produttive e della circolazione automobilistica, nelle due zone in questione e non solo, dai satelliti e dal monitoraggio in loco, è stato possibile notare subito una visibilità recuperata ed un ripristino dei valori ottimali della qualità dell’aria, evidente conseguenza del venir meno dello stress ambientale ma ancora identificabile come causa diretta o concausa del diffondersi dell’epidemia.

Anche grazie al maggior tempo a nostra disposizione per la lettura, abbiamo potuto in questi giorni ripercorrere il racconto delle innumerevoli epidemie che, con differenti denominazioni ma con similari modalità di diffusione, ampiezza numerica di vittime, identici sentimenti di paura collettiva, tragiche conseguenze socio-economiche, hanno periodicamente colpito l’umanità, in ogni periodo storico sempre inerme ed incapace di fronteggiarle. Da un secolo a questa parte, lo sviluppo della scienza ci consente di analizzare la natura di ogni singola epidemia, di decifrarne i meccanismi di mutazione ed attecchimento, di individuare con relativa celerità ritrovati antagonisti e vaccini per future insorgenze dello stesso virus o similare. A me, come a tutti coloro che non fanno parte del ristretto mondo della ricerca scientifico-medica, non resta che attendere fiduciosi, coltivando anche la speranza che possano anche essere trovati sistemi di prevenzione, indagine precoce, metodologia comportamentale, organizzazione della struttura sanitaria vocata, poiché su questi aspetti non ci sono stati progressi negli ultimi sette-otto secoli come si può evincere dal breve excursus storico che segue, tratto dagli archivi e dalle cronache di Viterbo, mia città di origine.

1348. Peste nera arrivata dall’Asia grazie ai topi infiltrati tra le merci trasportate; grande mortalità nella città, dilagare della peste favorito dalle pessime condizioni igieniche delle persone e delle abitazioni, inquinamento delle acque, convivenza di persone ed animali.
1449. da un quaderno di memorie di una famiglia locale: ”e così vi ricordo figlioli miei, quando vengono simili influenze di peste e morìa vogliate fugire, perché secondo li famosi e valentissimi medici, non ci è altro miglior rimedio se non fugir presto da lunga e tornar tardi”.
1451. “Quella peste afflisse talmente anche il contado di Orte e la città stessa, che di ogni cento persone ne restarono dieci. Mugnano fu quasi disabitato, Bomarzo fu ridotto a 22 persone, Vignanello in tutto vi morirono trecento cinquanta persone e tutte dalla parte della Porta. In Carbognano, parte per la cattiva aria, e parte perché il male era gagliardo, vi rimasero quindici persone e otto ragazzi.”

1470. “anno Domini 1470..seguitava en Viterbo..granne mortalità de vecchi et anche de giovani, et morevano de fevre e ponctora”. La ponctora viene identificata oggi come polmonite infettiva, che si manifestava con un iniziale forte dolore (pontura) all’emitorace e doveva essere molto frequente all’epoca, come dimostra la gran quantità di suppliche ed ex voto dei sec. XV e XVI presenti in tante chiese con riferimenti a stati febbrili ed influenzali.
1495. Da un atto notarile del 1495.”Ad mal de pontura facete come segue: che non magni cosa nesciuna salvo una minestra di panatella et non bevi, et si pure vole bevere che bevi un poca di aqua cotta in termine di otto o nove di, li si faccia una sdrifulatio dinanti in nelle coste, et che DORMA AL CONTRARIO dove ave el decto male subito guarirà.”

1476. vengono chiuse le porte della città, sospese le scuole e le funzioni religiose, cacciati mendicanti e meretrici, dove c’è un malato, tutta la sua famiglia viene segregata nella casa ed una sola persona può per le necessità uscire sotto controllo, i malati gravi vengono portati nel lazzaretto, c’è un aumento di furti nelle case e di vendette di sicari, non c’era più chi soccorresse i malati e non si sapeva più dove gettare i morti. Due becchini furono fatti venire da Orvieto e due cittadini furono “deputati sopra la peste”, la quale durò da marzo a settembre e fece nella sola città di Viterbo tre mila vittime. Intorno al mese di settembre l’epidemia cominciò a ridursi per l’irrigidirsi del clima, ma un noto medico assicurò che la peste stava cessando per la riduzione delle sporcizie dell’aria, mentre un famoso chirurgo sentenziò che la malattia veniva “per un contagio e non una corruzione dell’aria”. A seguito dell’epidemia gli amministratori cittadini dettero vita ad un istituto che in futuro si occupasse dei vecchi e raggruppò i sei ospedali civili allora esistenti, non riuscendo però a coinvolgere anche i tre restanti ospedali religiosi.
Che dire dopo aver letto le tante incredibili assonanze tra i racconti delle epidemie di quegli anni lontani e quella odierna?
Che nonostante tanti progressi della scienza per cui andiamo molto fieri, su diversi aspetti ancora non chiariti su come prevenire e stroncare in origine un virus e sulle risposte sanitarie ed organizzative da opporre ad una epidemia, possiamo purtroppo confondere le cronache di allora con quelle di oggi, anche circa il quesito sulle interrelazioni tra epidemia ed ambiente pulito.

Non ci resta che investire ancora risorse su scienza e salute ed operare ogni sforzo perché la Natura ritrovi il suo equilibrio. E per favorire questo convincimento e questo impegno individuale, in un periodo in cui dobbiamo restare forzatamente a casa, FONDAZIONE SORELLA NATURA

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