Macron salva l’Europa. Ma i problemi restano tutti.

Anche il sistema francese mostra i suoi limiti. Ora alle legislative di giugno sia Le Pen sia Mélenchon chiederanno un voto per “ingabbiare” il Presidente, che ha un dominio pressoché assoluto sulla politica estera ma non così su quella interna. Pertanto l’esecutivo non è automaticamente così forte come spesso si vorrebbe far credere. Questo per dire che ogni sistema ha, inevitabilmente, i suoi limiti, con i problemi connessi.

Come già cinque anni fa Emmanuel Macron salva l’Europa. E’ chiaro a chiunque, infatti, che se le elezioni presidenziali francesi le avesse vinte Marine Le Pen il futuro dell’Unione sarebbe stato assai cupo. E’ inimmaginabile una UE senza la Francia o anche solo con una Francia in perenne posizione critica verso Bruxelles. Ci sono state nel tempo crisi ripetute fra Parigi e la Commissione UE (celebre è rimasta quella della “sedia vuota” del generale De Gaulle) ma mai, nemmeno per un giorno, si è pensata possibile una UE senza la Francia. Nella storia dell’Unione infatti Parigi non è Londra e se l’abbandono di quest’ultima – ancorché doloroso – ha potuto essere assorbito, un’eventuale dissociazione della prima non potrebbe essere sopportato dalle istituzioni comunitarie. Bene così, dunque. Anche perché il Presidente francese è di sicuro il più europeista della storia, pur senza mancare di toni anche nazionalistici come è tradizione nella patria della Marsigliese.

Sarebbe però un grave errore sottovalutare sia il risultato elettorale ottenuto dalla candidata sconfitta al ballottaggio sia l’elevato livello raggiunto dall’astensionismo, un fenomeno che si sta espandendo un po’ in tutti i Paesi. Cominciamo proprio da quest’ultimo dato.

Quasi il 30% di non votanti al ballottaggio presidenziale è una percentuale assai alta, mai raggiunta negli ultimi 50 anni. Sintomo di un disagio evidente, anche se ormai dobbiamo cominciare a considerare come un dato di partenza nelle democrazie occidentali un tasso di astensionismo fisiologico prossimo ad un quarto degli aventi diritto al voto. Persone che in larga misura non meriterebbero, per il loro menefreghismo, di godere dei benefici della democrazia ottenuti grazie al sacrificio di molti martiri della libertà. (Questo articolo è scritto i a ridosso del 25 aprile, e quindi questa affermazione ha un suo evidente perché).

Ci sono però, indubbiamente, anche le astensioni “politiche” derivanti dalla mancata fiducia nei confronti dei partiti in lizza o, come in questo caso, dei candidati al ballottaggio. E dunque pure il sistema elettorale della V^ Repubblica pare presentare qualche crepa. Il Presidente eletto, alla fine, ha ottenuto al primo turno una percentuale inferiore a un terzo degli elettori e al ballottaggio ha superato, bene, la metà dei medesimi ma su una base elettorale ridotta da un così elevato fenomeno astensionista.

Quindi molti cittadini che al primo turno hanno votato per la loro opzione favorita non si sono recati alle urne per il secondo turno. Non solo. Molti che hanno votato al ballottaggio per Macron lo hanno fatto solo per sbarrare la strada a Le Pen e non per fiducia nei confronti del Presidente. Un voto contro, insomma.

Certo, il vantaggio del sistema, dal punto di vista dell’esecutivo, è che il Presidente al di là di tutte queste considerazioni è da subito operativo a tutti gli effetti e dotato di un ampio potere così come definito costituzionalmente. Mentre un eventuale sistema proporzionale, di cui legittimamente si discute in Italia, trasferisce poi la trattativa fra i partiti in Parlamento, col rischio di comporre governi deboli e sottoposti al perenne ricatto del voto parlamentare su questa o quella decisione da adottare o legge da approvare.

Resta però il fatto che anche il sistema francese mostra i suoi limiti. Ora alle legislative di giugno, ad esempio, sia Le Pen sia Mélenchon chiederanno un voto per “ingabbiare” il Presidente, che ha un dominio pressoché assoluto sulla politica estera ma non così su quella interna, come è giusto che sia nel gioco democratico dei pesi e dei contrappesi istituzionali. Pertanto l’esecutivo non è automaticamente così forte come spesso si vorrebbe far credere. Questo per dire che ogni sistema ha, inevitabilmente, i suoi limiti, con i problemi connessi.

La seconda questione è più strettamente politica. Il 41% di Le Pen è un risultato importante. Che va considerato congiuntamente a quello manifestatosi al primo turno, quando la somma dei voti ottenuti dai tre principali candidati dalla radicale o quanto meno forte contestazione al sistema (Zemmour e Le Pen a destra, Mélenchon a sinistra) ha sostanzialmente raggiunto il 50% dei consensi. Un segno inequivocabile di sfiducia nella tradizionale tessitura della politica transalpina testimoniata per di più dal crollo dei protagonisti di oltre 50 anni di V^ Repubblica, i socialisti e i gollisti. 

Il disagio prodotto nel tempo dalla crisi economico-finanziaria iniziata ormai 15 anni fa ma non del tutto superata ancor oggi; dalla crisi determinata da due anni di pandemia (una crisi anche sociale e psicologica individuale, non solo economica) pure questa non definitivamente superata; e ora una possibile crisi recessiva indotta dalla terribile guerra russa all’Ucraina e dalle conseguenti azioni europee a sostegno di Kiev: ebbene quel disagio si è ampliato producendo sfiducia nelle istituzioni rappresentative, rabbia sociale anche violenta (proprio in Francia lo si è visto col movimento dei Gilet Gialli), volontà di alternatività assoluta al sistema (con prevalente matrice di destra autoritaria, ma non solo), sottovalutazione quando non addirittura interesse o sostegno per gli autocrati incuranti dei principi liberali e democratici.

Insomma, un ulteriore aspetto di una possibile (o incipiente?) crisi delle democrazie occidentali delle quali più volte abbiamo parlato su queste pagine. È anche su questo che ha scommesso Vladimir Putin.