Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Roberto Celada Ballanti

La figura e l’opera di quello che i contemporanei sentirono come magister, tanto che questa sua qualifica di meister diventò una sorta di nome proprio, è emersa ormai in tutta la sua grandezza filosofica e religiosa anche in Italia. Si deve in particolare al lavoro compiuto in quasi cinquant’anni da Marco Vannini se oggi possediamo, sola nazione al mondo, tutte le opere eckhartiane, sia tedesche, sia latine, tradotte in una lingua moderna. Al medesimo studioso fiorentino si devono però anche una serie di studi che inquadrano la figura di Eckhart (1260-1328 circa) nel suo tempo e, più in generale, nella storia del pensiero e della mistica, ma soprattutto sottolineano il valore spirituale del suo magistero, più che mai attuale.

A questo duplice fine, tanto storico quanto spirituale, obbedisce anche il recentissimo Meister Eckhart, L’anima e Dio sono una cosa sola, a cura di Marco Vannini (Firenze, Le Lettere, 2020, pagine 208, euro 16), che raccoglie i principali testi del maestro medievale sul tema cruciale del rapporto tra Dio e l’anima. Il titolo, che suona certo strano, incomprensibile, finanche assurdo per l’opinione comune, per la quale una cosa è l’anima, o come oggi si preferisce dire la psiche, e un’altra, ben distinta, Dio, non è altro che un’affermazione, molte volte ripetuta da Eckhart stesso.

Per comprenderla nel suo vero senso, che non confonde affatto uomo e Dio, è fondamentale innanzitutto ricordare che l’antropologia cristiana medievale, entro cui si muove anche il maestro domenicano, è l’antropologia tripartita corpo-anima-spirito, di cui occorre tener ben presente la contrapposizione rigorosa, drammatica, tra anima e spirito, espressa nel secondo capitolo della prima lettera ai Corinzi, come pure quanto scrive l’apostolo, successivamente nello stesso testo «Chi si unisce al Signore, è con lui un solo spirito» (1 Corinzi 6, 17).

Meister Eckhart sta infatti in una ben precisa tradizione, classica e cristiana insieme, di cui il documento più importante, e comunque il più vicino a lui, è il Liber de spiritu et anima, un testo del xii secolo, attribuito ad Agostino, di cui i più avveduti, come Tommaso d’Aquino, sanno ormai che non è del vescovo di Tagaste, ma che in ogni caso riscuoteva grande autorità, anche per la quantità di informazioni che forniva sulla questione, appunto, dell’anima e dello spirito.

Seguendo, dunque, un’antica tradizione, il domenicano tedesco ripete che l’anima ha due aspetti, due occhi, o due volti: si chiama anima in quanto dà vita al corpo (anima quia animat), ed è rivolta al molteplice, nello spazio e nel tempo, ma si chiama spirito in quanto sta nell’Uno, nell’eterno. Eckhart respinge peraltro l’idea, antichissima, ma presente anche al suo tempo (ad esempio presso i catari), della presenza nell’uomo di due anime. No, l’anima è una sola, però ha qualcosa che non dipende dal qui e dall’ora, qualcosa che è separato dal molteplice e dal tempo, e perciò libero. Questo qualcosa è l’intelletto attivo, che nel libro Sull’anima è chiamato da Aristotele «separato, senza niente in comune con alcunché, esso solo ciò che realmente è, e questo solo è immortale ed eterno». Nella tarda grecità, con lo stoicismo, e poi con Filone Alessandrino fino al mondo cristiano, l’intelletto attivo prese prevalentemente il nome di pneuma, spirito e, come l’intelletto aristotelico rimanda a Dio, che è «pensiero di pensiero», così spirito rimanda a Dio, che è spirito, secondo le parole rivolte da Gesù alla samaritana al pozzo di Giacobbe, in Giovanni 4, 24.

Abbiamo detto che per Eckhart l’anima ha qualcosa che non dipende dal qui e dall’ora, ma dobbiamo precisare che l’anima è per eccellenza questo qualcosa. Viene chiamato in più modi, metaforici o tecnici — scintilla, castello, sinderesi, ecc. — ma quello preferito è grund, “fondo” dell’anima, ovvero sostanza dell’anima, che, come insegna anche san Giovanni della Croce, è Dio stesso. «Per chi ha gettato anche un solo istante lo sguardo nel fondo dell’anima, per lui mille marchi d’oro sono come un soldo falso», scrive il maestro domenicano, ovvero chi ha sperimentato la beatitudine della conoscenza di se stesso guarda con distacco a tutte le cose e vicende che possono comunque toccarlo.

Eckhart, dunque, da un lato recepisce in pieno la lezione della filosofia classica: conosci te stesso e così conoscerai anche Dio, perché uno solo è il Logos, umano e divino; dall’altro rivendica per ogni cristiano quel che Gesù afferma di se stesso: essere una sola cosa col Padre. Ribaltando così completamente il dualismo biblico, per cui c’è un Dio lassù nei cieli e un uomo quaggiù in terra, il maestro domenicano punta risolutamente sull’unità spirituale tra Dio e uomo insegnata da Giovanni e da Paolo e afferma perciò che anima e Dio sono una cosa sola. Questa paradossale verità la comprende però soltanto l’uomo interiore, ovvero l’uomo completamente distaccato, che ha seguito l’insegnamento del Cristo, evangelicamente rinunciando a se stesso (cfr. Luca 9, 23), «odiando» l’anima sua (cfr. Giovanni 12, 25), che diviene così spirito, come Dio è spirito. Si apre allora per lui, «uomo nobile», già qui nel tempo la luce abbagliante dell’eternità e già qui nel molteplice la dimensione beatificante dell’Uno.

Nella sua ampia introduzione, e poi anche nella breve conclusione, significativamente intitolata Un maestro lontano, a noi vicino, il curatore indica l’importanza non solo filosofico-teologica della lezione eckhartiana, ma anche, e innanzitutto, quella che potremmo definire psicologica, esistenziale, in un tempo di grande smarrimento come è il presente, un tempo che già Hölderlin definì «tempo di povertà», nel quale la nozione stessa di spirito è scomparsa dall’orizzonte della cultura.