Articolo pubblicato, con titolo diverso, su Huffington di domenica 30 luglio 2019)

Scalfari offre sempre uno spunto di qualità per riflettere sulla vita politica odierna. Lo fa con le armi di un’analisi attenta alla storia, legando presente e futuro. Non sono mai banali, le sue analisi, né lo sono i richiami che spesso formula a sostegno di un’azione politica più coraggiosa, in nome di un’Italia bisognosa di speranza. Dunque prestare attenzione a quanto scrive, sempre con lucidità, non è un esercizio superfluo: anzi, di regola costituisce una bussola imperdibile.

È noto, del resto, il suo rapporto di simpatia e vicinanza con il Pd, dalle origini ad oggi, benché talvolta non lesini critiche alla dirigenza del partito. Nel tradizionale editoriale della domenica, ha voluto su “Repubblica” rincuorare il mondo democratico, spingendolo a guardare avanti, a combattere la buona battaglia contro l’attuale Governo, a vincere l’amnesia da cui scaturisce il disorientamento. Per questo, volendo rinsaldare l’identità della sinistra, ha riproposto la figura di Enrico Berlinguer.

In un passaggio è stato lapidario: “Il Pd odierno è la derivazione del partito comunista di Berlinguer”. Il che suona, onestamente, come la confutazione del percorso che ha condotto i cattolici del PPI a farsi promotori, dopo la parentesi della Margherita, di quel nuovo soggetto unitario dei riformisti, a cui fu dato appunto il nome di Partito democratico. Più che un partito unitario dei riformisti, con l’apporto eminente dei cattolici democratici, il Pd sarebbe o dovrebbe essere l’incarnazione della profezia di Marx sull’assorbimento della eredità liberale nel comunismo. Correva l’anno 1848. Dinanzi ai moti rivoluzionari europei Marx arrivava a questa conclusione: “Uguaglianza e libertà: questo è il comunismo e questo sarà il futuro del mondo”.

Ora, in Italia, la suggestione del “comunismo liberale” costituì nel secondo dopoguerra l’effimera scommessa del Partito d’Azione. Non ebbe fortuna. Togliatti, più di altri, ne stroncò le ambizioni archiviando in fretta, per agganciare la Dc di De Gasperi, la fragile esperienza del governo Parri. Ebbene, se l’anti-azionismo del leader storico dei comunisti italiani ha conosciuto piena espansione, con il varo negli anni ’70 della politica del compromesso storico, lo si deve in effetti a Berlinguer. Di qui viene la lezione su cui fa leva dialetticamente, dopo la caduta del Muro e la fine della prima Repubblica, lo sforzo di ricomposizione della cultura riformatrice italiana.

Forse, se oggi il Pd sconta un effetto di incompiutezza, talché la curva del consenso elettorale ha preso a piegarsi, non sta nel suo mancato aggiornamento della linea azionista. Sta piuttosto nel suo esatto contrario, vale a dire nella strisciante e contraddittoria pretesa – si pensi alla contestuale mitizzazione, non priva di ingenuità, del dialogo tra Berlinguer e Moro – con la quale s’intende recuperare ed imporre, in chiave di sostanziale emancipazione dal mondo “democratico e cristiano”, l’anima profonda dell’azionismo. Da questo punto di vista, a soffrire non è la posizione di quanti hanno trasfuso nel Pd la linfa del cattolicesimo politico, quanto il Pd nella sua interezza e complessità.

Fuori dal confronto che Moro e Berlinguer simboleggiano, senz’altro in uno processo di assiduo adeguamento alla realtà odierna, il Pd si riduce a materia inerte. Può reinventarsi nella figura di partito che non volle essere in origine, quando cioè fu riconosciuta l’esigenza, da parte degli ex comunisti, che la fondazione di una nuova politica democratica andasse oltre le alternative – socialdemocrazia o neo-laburismo – della sinistra europea. Ma se un partito diventa materia inerte, in questo caso perché si rifugia in un “altrove” già respinto all’atto della sua costituzione, allora non può pretendere di riconquistare la perduta capacità di attrazione. Questo rischio, nascosto nella sollecitazione elegante e insidiosa di Scalfari, pesa più di qualsiasi minaccia di scissione. Cosí, più semplicemente, il Pd implode.