Visitare i luoghi che (seppur per breve tempo) ospitarono la dimora e l’ambiente di lavoro in cui, lontano da occhi indiscreti, ponderava le riforme e preparava i suoi discorsi un personaggio come Pellegrino Rossi, fa un certo effetto. E ripensare al tragitto che quella mattina del 15 novembre del 1848 lo portò dalla sua abitazione alla scalinata poco distante in cui trovò la morte, fa ancora più effetto. 

Le grandi iniziative politiche non nascono per caso, ma per concepirle occorre un ambiente socio-culturale permeante, e soprattutto, un contesto idoneo e preparato al cambiamento. Quando Pellegrino Rossi rispose con un immediato si all’invito – o meglio alla richiesta di aiuto – di Papa Mastai Ferretti, che si diceva pronto a laicizzare una serie di esclusive prerogative ecclesiastiche, dovette trasferirsi in pianta stabile a Roma, pronto a far parte del nuovo governo pontificio che si sarebbe insediato di lì a poche ore. Nominato ufficialmente il 10 settembre 1848, l’esecutivo lavorò subito alle riforme che, sull’onda delle primavere risorgimentali del secolo decimonono, anche buona parte dei cittadini dello Stato della Chiesa aveva ormai iniziato a reclamare.

Palazzo Mancini Salviati, un edificio seicentesco di Roma in cui lo stile barocco si mescola al neoclassicismo rinascimentale, si trova in Via del Corso immediatamente a ridosso di Piazza Venezia, con la quale fa più o meno angolo. A partire dalla seconda metà del Seicento la struttura passò da una proprietà all’altra: dai coniugi Mancini-Mazzarino (lei era la sorella del più famoso cardinale) all’accademia francese, dai Bonaparte ai Savoia, dai Borbone ai duchi Salviati e in epoca più recente – parliamo dell’inizio del Novecento – al Banco di Sicilia. Un palazzo sfarzoso in cui venivano dati grandi ricevimenti e feste carnevalesche che al tempo, in città, facevano epoca. Al secondo piano, intorno al 1860, dimorò il Ministro degli Stati Uniti presso la Santa Sede Rufus King, il quale, non avendo un luogo di culto dove professare la sua fede protestante, modificò parte dello stabile e vi fece erigere una cappella mettendo in grande imbarazzo la cattolicissima padrona di casa, la duchessa Salviati. Una volta lasciato l’appartamento dal diplomatico, lo stesso fu fatto immediatamente ribenedire dalla nobildonna. In quella medesima casa aveva abitato Pellegrino Rossi, soprannominato il “Conte dello Spirito Santo”, neo-titolare dei dicasteri dell’Interno, della Polizia e delle Finanze. Nelle poche settimane di tempo che ebbe per pianificare le sue politiche, quelle stanze rappresentarono il rifugio ideale per dare esecuzione a un grande progetto di rinnovamento, anche e soprattutto sotto l’aspetto socio-economico. Per la Chiesa di Roma si trattava di una svolta epocale. Forse troppo vasta in così breve tempo.

Rossi fu un personaggio scomodo, riuscito nell’impresa di provocare l’ostilità sia della parte politicamente avversa che di quella in teoria – ma solo in teoria – da cui avrebbe dovuto ricevere un sostegno incondizionato. Non disposto al do ut des e benché la presenza nell’esecutivo di alcuni personaggi non facesse pensare certo a propositi innovativi (il conservatore Cicognani alla Giustizia e Vizzardelli, uomo legato al tradizionalismo cattolico, all’Istruzione), la conferma del suo peso preminente nelle politiche governative fu l’istituzione – a pochi giorni dall’inizio del mandato – delle cattedre di Economia e Diritto commerciale a Roma e Bologna e il blocco dei beni che numerosi alti prelati erano soliti trasferire all’estero. L’imperativo era certamente quello di avviare un forte risanamento delle casse dello Stato, ma anche quello di dare luogo allo svecchiamento delle cariche. La lotta alla corruzione, il drastico taglio degli uffici amministrativi pontifici e il suo veto a ogni possibilità che potesse far pensare a un intervento militare dello Stato della Chiesa contro l’Austria, fecero probabilmente il resto. E senza la necessità di fare ulteriori elenchi dei propositi del giurista carrarese, si pensi alla tensione creatasi intorno alla sua persona un po’ovunque: tra i patrioti repubblicani, che videro indebolirsi le speranze di unificare le province italiche sotto un unico Stato e tra gli ambienti “legittimisti” del clero, che correvano il rischio di veder affievolirsi i privilegi di tipo feudale (ne fu interessata anche la milizia pontificia) mantenuti per secoli.

Neppure la stampa fu tenera con Rossi; la stessa Civiltà Cattolica lo accusò di aver creato motivi di scontro tra la popolazione e i poteri costituiti, mettendo in pericolo l’ordine pubblico e l’incolumità di S.S. Pio IX. Le minacce erano ora mai all’ordine del giorno. La tarda mattinata di mercoledì 15 novembre lo statista si recò in Via Condotti, a poche centinaia di metri da casa, per una breve visita all’ambasciata di Malta, e di lì a Palazzo della Cancelleria, dove stazionava una folla minacciosa e dove non entrò mai. La giustizia pontificia si affrettò a chiudere il caso in seguito all’accusa contro una serie di personaggi (tra cui uno dei figli del celebre Brunetti, detto Ciceruacchio) per i quali non vi fu certezza che fossero autori o mandanti dell’accoltellamento ai danni del ministro. Leggendo i verbali, oltre ai depistaggi e alle testimonianze contraddittorie, ciò che lascia perplessi è il vuoto (non solo politico) lasciato intorno a Rossi da parte del suo entourage e della sua scorta, la quale, defilandosi improvvisamente al momento dell’omicidio,  lasciò liberi di agire chiunque fossero gli assassini. Almeno di questo vi è certezza.