Nel “Memoriale Moro”, la storia del Paese

Riportiamo l’articolo apparso su “Roma sette” il 26 aprile che informa sulla presentazione della edizione critica delle lettere e del “Memoriale” di aldo Moro, scritti durante i 55 giorni della prigionia.

Larga partecipazione di pubblico ieri, 25 febbraio, alla presentazione del volume “Il memoriale Moro – edizione critica”, coordinata da Michele Di Sivo: la Sala Alessandrina dell’Archivio di Stato, che ospita tutta la documentazione, in particolare quella desecretata dal 2014, era piena, con molta gente in piedi, a dimostrazione dell’interesse che il “caso Moro” suscita ancora oggi alla vigilia del 42° anniversario del rapimento del presidente della Dc e della strage della sua scorta. Assenti perché impegnati nell’emergenza sanitaria del momento il ministro Franceschini e l’onorevole Fioroni, già presidente della Commissione d’inchiesta Moro. Un evento preceduto dall’esposizione di alcune pagine del memoriale e delle lettere dello statista e introdotto dalla lettura da parte dell’attore Fabrizio Gifuni, reduce dal successo della pièce “Con il vostro irridente silenzio” al Teatro Vascello, della lettera di Moro a Cossiga, la prima resa pubblica.

Un lavoro certosino, durato cinque anni, frutto della paziente ricostruzione di un team qualificato. Un lavoro, come ha ricordato Di Sivo, «di analisi, grafologia, esegesi». Un libro, ha affermato il direttore dell’Espresso Marco Damilano, «di grande rigore scientifico. Qualcosa che dovrebbe essere studiato nelle scuole. Oggi lettere e testi liberati dal quel doloroso episodio possono restituire Moro alla storia del Paese». Di Sivo ha sottolineato che l’edizione critica del memoriale (non delle lettere) ha significato non solo rimettere in ordine le 237 pagine ma un lavoro ben più approfondito. Si è ricostruito come le Br hanno messo in sequenza le pagine ritrovate nel covo di via Monte Nevoso in due momenti distinti «ma non bastava. Bisognava ricostruire il modo in cui Moro le aveva scritte, perché significava rimettere insieme i frammenti. Per me – ha spiegato Di Sivo – è stato sorprendente come siamo arrivati a questo ordine che diventa un flusso logico, razionale, di pensiero continuo e coerente». Questa ricostruzione «ha consentito di capire il modo di ragionare di Moro e cosa significava una frase criptica: nella lettera a Cossiga dice di essere sottoposto a un processo popolare che può essere opportunamente graduato. Ci ho messo cinque anni per capirla. In quelle condizioni solo l’inquisitore può graduare. E dunque processo graduato da chi? Si capisce che Moro gradua le sue risposte fino all’esplosione finale. Moro sta dicendo “sono sotto un dominio pieno e incontrollato ma posso graduare questo processo. Lo posso fare io. Attenti”». Una «sequenza drammatica» considerando che Moro continua a scrivere dopo la condanna, decisa il 15 aprile, fino al 2 maggio.

Una pagina di storia sulla quale, secondo Miguel Gotor, che ha collaborato alla stesura del libro, bisogna «evitare due rimozioni in cui rischiamo di cadere. La prima è che Moro non è stato ucciso da Benigno Zaccagnini. Mi rendo conto che dal punto di vista emotivo, studiando questo testo, si possa essere indotti a pensarlo, guidati dalla potenza retorica del prigioniero. Ma Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Br. Non facciamo evaporare dal punto di vista civile questa consapevolezza perché sarebbe un tradimento. La seconda cosa da evitare – ha proseguito – è che non dobbiamo perdere di vista che questo testo è viscido, ambiguo, esce da un linguaggio che è anche un linguaggio delle catene e delle pistole, della violenza e della costrizione, non è solo libertà autoriale di un grande uomo politico e umanista. Il tema della libertà e dell’autonomia resta un problema aperto sul piano storico su cui bisogna continuare a ragionare con l’obiettivo di non tradire la tragicità dell’esperienza di Moro». Per questo, sostiene Gotor, «serve una lettura tra le righe: il testo è uno straordinario esercizio di dissimulazione».

Un esempio per tutti: «Moro sapeva le ragioni che avevano spinto Taviani a lasciare il governo nel 1975. Da ministro dell’Interno aveva destituito D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati del ministero, pochi giorni dopo la strage di piazza della Loggia e il sequestro del magistrato Sossi a Genova. Moro nella sua lettera, di cui sono stati distribuiti solo 8 fogli manoscritti, peraltro scomparsi, attacca Taviani e quando la lettera arriva all’opinione pubblica tutti si chiedono perché lo abbia fatto. Lo sappiamo dal 1990: sulla scorta dei diari postumi si è scoperto che Taviani è stato di fatto l’amministratore di Gladio in Italia. Nel 1978 lo sapevano in pochissimi». E quei pochissimi ne sono destabilizzati. Gotor ha sottolineato pure come del memoriale «mancano gli originali» – ci sono solo fotocopie – «ed è certamente mutilato: mancano le parti relative alla fuga di Kappler, al golpe Borghese e alle tensioni tra arabi e israeliani in Italia negli anni ’70. Argomenti che riguardano o delicate questioni internazionali e le relazioni con Stati amici come Germania e Israele oppure su cui nel 1978 c’erano processi e indagini».

Gli aspetti legati alla situazione internazionale dell’epoca sono stati al centro dell’intervento dello storico Umberto Gentiloni: con la «crisi degli anni Settanta finiscono una serie di certezze e consuetudini del vecchio mondo costituente, il centrosinistra sta tramontando, quel mondo sta finendo. Alcuni si accorgono che qualcosa può nascere. Che cosa? Il 1978 per l’Italia è il funerale della Repubblica?». Ma Gentiloni non crede «né alle ricostruzioni di decisioni prese in qualche stanza segreta magari a Washington né di una classe dirigente completamente autonoma. La situazione era complessa» e la questione di fondo è legata alla «storia del Paese che in quegli anni rompe il rapporto di sinergia tra quadro interno e contesto internazionale». Dunque i piani di lettura possibili del memoriale «sono quelli di questa struttura logica del rapporto tra il prigioniero e il suo processo ma anche quelli di un rapporto tra il memoriale e la storia del Paese. Per questo diventa un patrimonio perché si toglie dal ricatto di quei 55 giorni e diventa un modo di ragionare della storia d’Italia nel suo complesso. Forse per questo – ha concluso – ci interessa tanto di capire».