Pandemia: emergenza sanitaria e disagio sociale

Il terrorismo mediatico, le opinioni comuni, gli sfoghi social, le teorie del complotto, il negazionismo, l’allarmismo, il sentito dire, l’onniscienza.

E’ stato scritto che si sta facendo “terrorismo mediatico” pubblicando i dati degli accessi agli ospedali registrati in questi giorni. E’ stata proposta la lezioncina “chi è positivo non è malato”, come se gli operatori del settore ne avessero bisogno. E’ stato detto che “è facile parlare e stare in guerra quando si ha lo stipendio garantito”.

Partiamo dal principio. Da quel principio sacrosanto della Costituzione per cui la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, il quale dovrebbe essere garantito da uno Stato che avrebbe il dovere di non abbandonare alcuno dei suoi cittadini. Ribadiamo anche che, in un Paese democratico quale siamo, il diritto di esprimere il proprio pensiero, anche quando questo è in dissenso rispetto alle Leggi imposte, è legittimo e come tale deve essere conservato. Con qualche precisazione. Si può manifestare in maniera pacifica, si possono organizzare sit-in, campagne mediatiche di sensibilizzazione di massa, class action a firma congiunta dei vari rappresentati delle classi lavorative. Nessuno può permettersi di controbattere sul fatto che chi esprime le proprie ragioni abbia il diritto di farlo o fondi la propria protesta su motivi validi e fondati. Nessuno può arrogarsi questo diritto e nessuno lo ha fatto. La violenza, invece, quella deve essere SEMPRE condannata.

A maggior ragione, sia consentito, in questo preciso momento, creare assembramenti e sfogarsi con atti di vandalismo e violenza, rischiano di andare a procurare un ulteriore intasamento dei Pronto Soccorso, già in estremo affanno.

Il terrorismo mediatico, le opinioni comuni, gli sfoghi social, le teorie del complotto, il negazionismo, l’allarmismo, il sentito dire, l’onniscienza. In questi mesi sono state date informazioni troppo varie e spesso purtroppo discordanti, che hanno creato confusione e si sono rivelate un’arma a doppio taglio nella prevenzione della diffusione del virus. E’ vero che essere positivi non significhi per forza essere malati, dal momento che, come si è visto, spesso l’infezione decorre in maniera asintomatica. Ma essere positivi significa essere infetti, dunque contagiosi, e determina pertanto l’elevata possibilità di trasmettere il virus ad altre persone che potrebbero avere la sfortuna di sviluppare una malattia in forma conclamata, con bisogno di cure di diversa entità, fino all’ospedalizzazione e addirittura alla necessità di terapia intensiva.

La consapevolezza che sia necessario seguire alcune norme comportamentali (distanziamento, disinfezione di mani e superfici, uso della mascherina, divieto di assembramento, ricorso al Pronto Soccorso solo quando strettamente necessario) è dovere degli operatori sanitari e dei rappresentanti dello Stato in primis, ma anche di tutti i cittadini, a cui deve essere chiaro che rispetto a queste poche regole non può essere tollerata disobbedienza alcuna.

Il personale sanitario è assolutamente consapevole che il famoso “stipendio fisso” sia un privilegio, di questi tempi. E’ altrettanto consapevole che questo vantaggio non sia un regalo o una fortuna piovuta al cielo, ma sia al contrario frutto innanzitutto di una scelta, e poi di un percorso di studio, del superamento di un concorso pubblico, di una esperienza spesso dolorosa maturata sul campo. Si crede forse che non ci sia precariato anche nel settore della sanità? Si pensa che a questi lavoratori a contratto sia stato detto di rimanere pure a casa in corso di pandemia, dal momento che non facevano parte del personale assunto? Si ritiene che le infinite ore di straordinario maturate in corso dell’emergenza sanitaria siano state adeguatamente retribuite? Quanto è stimato il prezzo dell’esser costretti a star lontani dai propri cari per non essere portatori del virus nelle proprie case o del senso di colpa per averlo trasmesso alle persone che si amano? Si immagina che il contagio avvenuto prestando servizio in ospedale, ad inizio pandemia senza adeguati dispositivi di protezione, sia stato considerato infortunio sul lavoro? E’ monetizzabile la morte di un medico o infermiere che è pure un genitore, figlio, fratello o sorella caduto sul campo lavorando in un reparto Covid? Ad alcune Aziende Sanitarie Locali è stato chiesto di vietare ferie e permessi agli operatori sanitari: non avrebbero anche loro ragione di protestare? Ci sono dunque diritti dei lavoratori di serie A e di serie B?

Ciò che è drammaticamente vero, è che questa pandemia che nella scorsa primavera sembrava aver alimentato uno spirito di solidarietà e comunanza di fronte al male comune, adesso sta facendo emergere le profonde divisioni sociali di questo Paese, fomentando una sorta di caccia al colpevole e risentimento collettivo del “tutti contro tutti”. La paura è il sentimento dominante, l’incertezza genera un clima del sospetto che porta a puntare il dito verso il prossimo, chiunque esso sia. E’ davvero onesto, però, che sia sempre colpa di qualcun altro? Quanto siamo disposti a fare un esame di coscienza ed ammettere che, nel nostro piccolo, ben pochi di noi sono disposti a piccole rinunce e sacrifici nel proprio quotidiano per la salvaguardia del bene collettivo? Forse è più vero che questa sia la società del “finchè si può”, dove ognuno conduce la propria vita fino allo stremo delle proprie possibilità, senza conoscere la capacità di autolimitarsi: finchè ci sono i soldi si spende senza risparmiare per i tempi duri; finchè non si è in lockdown ci si sposta a destra e a manca anche senza necessità effettive; finchè non si finisce intubati non importa se si indossa o no la mascherina.

E lo stesso vale per il Sistema: finchè gli ospedali reggono, seppur in affanno, non si pensa a potenziare la Sanità supplendo alle carenze più volte evidenziate; finchè la situazione non esplode, non si elabora un metodo organizzato che possa garantire chi è più penalizzato dalla crisi economica. Siamo quel Paese in cui, tanto i cittadini quanto i loro rappresentanti, aspettano a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati per poi alzare il lamento del “se si fosse fatto prima”. Siamo quel Paese del senno di poi dove ognuno, a modo suo, conduce la sua guerra e non c’è mai niente di nuovo sul fronte.