Nigeria, terra di sangue e di stupri: sono i cristiani a pagare il conto del terrorismo targato Boko Haram.

Sempre più difficile è la convivenza in Nigeria tra musulmani e cristiani. Boko Haram fa razzie nei villaggi, lasciando sul posto un bel mucchio di cadaveri. La percezione è di un mondo diverso: lontano e incomprensibile. “Africa ama” è il titolo di un vecchio docufilm che descrive gli usi tribali di un continente che sta perdendo le proprie tradizioni.

Giovanni Federico

Per fare un breve riassuntino di geografia, la Nigeria, ripartita in 36 Stati, è un paese di appena 200 milioni di abitanti e prende il nome dal fiume Niger che bagna quella parte di Africa occidentale. Per quanto faccia, la sua acqua non riesce a portare via il sangue che infesta quella terra e non soffoca nelle sue acque l’orrore delle grida delle sue vittime.  La sua popolazione è più o meno divisa tra cristiani e mussulmani ma da anni la convivenza si è fatta infernale. Al Sud in prevalenza i primi, al Nord soprattutto i secondi.

Nel nord del paese, introdotta la legge islamica, o Sharīʿa, nell’ordinamento di alcuni Stati settentrionali si è dato inizio ad una serie di azioni intimidatrici che invoglino i cristiani a lasciare le terre del Nord. È un paese con una economia in espansione ma che non ha perso memoria di come il male abbia una sua primitiva cruenza e serva per non perdere il senso delle origini, di quando si era al tempo a doversela cavare tra le belve. Boko Haram è un movimento fondamentalista che non vede di buon occhio i cristiani. Sorto nel 2009 gli hanno fatto fuori il leader ma il drago ha sette teste e continuamente rialza il restante capo nel suo delirio di onnipotenza. Così dal 2011 fa fede al suo nome che sta a significare “L’educazione occidentale è peccato”. Per onestà, nell’ambizione di un Califfato da costituire, non sono mancate stragi neanche nelle moschee.

I sanguinari di Boko Haram fanno razzie nei villaggi, ne rapiscono la gioventù, lasciando sul posto un bel mucchio di cadaveri a riprova che sono abili ad andare al sodo nell’incutere terrore. Lo stupro metodico è l’antipasto di ciò che verrà. L’8 marzo due testimoni di questi misfatti sono stati ricevute in Vaticano e poi nello stesso giorno accolte dalla Comunità della Parrocchia di Santa Chiara di Don Andrea Manto, che si è fatto promotore della iniziativa, insieme alla dottoressa Sandra Sarti, Presidente di “Aiuto alla Chiesa  che Soffre – Acs Italia”. Le giovani non hanno detto nulla di particolare. L’una, per un anno chiusa in una gabbia, per non aver voluto sposare, all’età di soli dieci anni, uno dei capi della banda. Le hanno ammazzato il fratello davanti agli occhi facendolo letteralmente a pezzi. Al padre dell’altra hanno chiesto di accoppiarsi con la figlia. “Non posso dormire con la mia carne e il mio sangue, mia figlia, preferirei morire piuttosto che commettere questo abominio”, è stata la risposta dell’uomo. È finita che lo hanno decapitato e consegnato la testa nelle mani della figlia obbligata ad assistere alla mattanza.

Le due perseguitate sono state accolte nel Centro traumatologico della diocesi di Maiduguri, costruito con l’aiuto dei benefattori di “Aiuto alla Chiesa che Soffre” dove una squadra di esperti provvede al recupero delle vittime di tanta violenza. L’8 marzo si sono festeggiate le donne. Presi dall’ebbrezza delle celebrazioni, si corre il rischio di cadere nell’indifferenza verso una parte del mondo dove si è sfortunati se ti accade che quella terra ti dia i natali. Le giovani donne hanno ricordato come ci sia da ringraziare il cielo di nascere in Occidente o comunque non dove a loro è capitato. Hanno parlato con un filo stentato di voce, che è lo specchio dello spiraglio appena dei giorni a venire che forse riescono a intravedere. Dovrebbero sbarazzarsi della loro storia, cancellarsi e ricominciare da capo. Su di loro incombe la condanna perenne di ciò che è stato, prigioniere di un orrore che a loro purtroppo non fa più meraviglia. Su di loro la memoria di una macelleria di uomini e donne che, in quanto si è resa possibile, perciò stesso potrebbe ripetersi, se non a loro ad altri. Non è più un timore. È solo un fatto con cui convivere. Non hanno da aspettarsi più nulla. Non c’è più paura che ormai possa davvero scuoterle. Quando ti levano il senso della sorpresa e del terrore ti hanno rubato il futuro. 

L’indifferenza è il morbo che potrebbe averle invase. Lotteranno per cambiare le carte del loro destino che sembra già tutto consumato nei pochi anni che hanno vissuto. Incombe su di esse il pericolo di un seme dell’inerzia che potrebbe aver attecchito sulla loro pelle, in opposizione al nostro gran manovrare quotidiano. Eppure c’è qualcosa di più che non dovrebbe sfuggire. Non il richiamo alla nostra abitudine alla efferatezza di certe regioni dell’Africa, non il rimprovero al nostro disincanto perché nelle terre selvagge, selvaggia è la vita che ti attraversa per l’intero. La tragedia non è nella nostra abitudine a carneficine di cui ci arrivano voci di tanto in tanto dai media. Il dramma è, al contrario, nella nostra differenza. La nostra percezione di diversità ci rende distanti dalle due ragazze di cui si è dato qualche traccia. E’ la piena consapevolezza di questo nostro essere “altro” a farci sentire estranei al resto dei fatti. 

È la nostra esatta distinzione, non solo geografica, da un martirio che non può in alcun modo sfiorarci, che ci separa in spirito e corpo dai 75.000 morti della Nigeria. Non si tratta della differenza cristiana, ma di una pretesa separazione antropologica che marca una linea di confine con quelle esperienze. Nella guerra dei Balcani, non troppo lontano da noi, è stato breve segno la foto di quelle milizie che giocavano a pallone con la testa mozzata del nemico.“Africa ama” è il titolo di un vecchio docufilm che descrive gli usi tribali di un continente che sta perdendo le proprie tradizioni minacciate dalla modernità incombente e che non sembra ad oggi abbia ancora attecchito. “Giù la testa” è lo slogan ancora di gran voga in Nigeria.