Noi siamo comboniane. Le storie: tre donne, una scelta di vita.

Da sempre la vita missionaria è volta a testimoniare Cristo nel servizio alla vita, in particolare ai più poveri. Con il loro esempio, le suore comboniane mirano a costruire ponti tra culture, per sostenere il grido di giustizia e dignità che proviene da uomini, donne, interi popoli.

Gabriella Bottani e Mariolina Cattaneo 

Missione è vita, è incontro che trasforma. Racconteremo la missione attraverso la vita di tre donne dedicate a Dio e impegnate in Paesi teatro di conflitti o in battaglie per i diritti della persona. In una chiesa spesso ferita e confusa queste donne condividono i loro sogni, il loro lavoro di ogni giorno, partendo dalla passione per Cristo che continuamente cambia la loro esistenza, la arricchisce di nuove prospettive, la apre a nuove possibilità. Sono suore comboniane e da sempre la vita missionaria comboniana è volta a testimoniare Cristo nel servizio alla vita, in particolare ai più poveri; un invito raccolto da molte giovani donne che mettono in campo la loro fede e loro stesse per costruire ponti tra culture, intessere relazioni di pace, sostenere il grido di giustizia e dignità che proviene da uomini, donne, interi popoli. E con uno sguardo attento all’oggi, intraprendente, aperto alla interculturalità, lavorando e confrontandosi con altri.

Dal Messico al Medio Oriente


Suor Lourdes Garcia è messicana e negli ultimi cinque anni è vissuta nel Medio Oriente. Attualmente è in Israele e lavora presso le comunità beduine Jahalin nel deserto della Giudea. Dall’ascolto dei loro bisogni nascono idee e programmi di formazione ed educazione che vengono sviluppati e realizzati attraverso una fitta rete di volontari e collaboratori di diverse fedi religiose, e di suore di diverse congregazioni.

Come lei stessa ci dice, «questo ci motiva a sentirci ponte tra due popoli, il nostro intento è infatti accompagnare questo popolo minoritario ma essere, contemporaneamente, ponti di pace». Così «si sta creando una piccola rete non solo intercongregazionale, se non addirittura interreligiosa, per uscire ad incontrare i nostri fratelli e sorelle più vulnerabili. Ho molta speranza che possiamo vivere e lavorare insieme per un bene comune, unendo le forze, vivendo ciascuno/a la propria fede, ebrei, musulmani, cristiani». Una fede che viene proclamata attraverso gesti e azioni quotidiane, dove i valori del Vangelo diventano realtà: l’accoglienza, il rispetto, l’incontro, la generosità. «Si sono creati legami di vicinanza, dialogo, fratellanza e affetto con i nostri fratelli e sorelle mussulmane. Vivendo insieme i momenti significativi della loro vita, ho potuto conoscere, oltre che la loro cultura e tradizioni, la realtà intima di queste comunità, le difficoltà, i problemi delle donne, ad esempio, che si sposano giovanissime e non proseguono gli studi nè acquisiscono qualche altra formazione».

L’impegno missionario continua anche con la piccola comunità cristiana di El-Azariyeh, la città di Lazzaro, la zona palestinese in cui vive. «Una piccola comunità cristiana di circa 10 famiglie. Ci riuniamo tutti i giorni per la recita del Rosario con le donne, organizziamo momenti di preghiera e visitiamo gli ammalati».

Dal Portogallo al Sud Sudan


Suor Joana Carneiro viene dal Portogallo e da cinque anni vive e lavora come medico al St Daniel Comboni Catholic Hospital, di Wau, la seconda città del Sud Sudan. Un bacino di circa 5.000 pazienti a settimana. Una realtà sanitaria importante in un Paese segnato dalla guerra.

L’ospedale ha 110 posti letto divisi per i quattro reparti: chirurgia, medicina generale, maternità e pediatria; in più c’è un servizio di radiologia che è il più avanzato di Wau. Joana attualmente è responsabile del reparto di chirurgia.

Lei racconta: «L’assistenza sanitaria in Sud Sudan è molto fragile, nel XXI secolo ci sono ancora molte persone che non hanno accesso alle cure sanitarie di base, e tra di loro molti bambini e donne. La nostra presenza, come suore missionarie comboniane, in un ospedale diocesano non è semplicemente una soluzione per la mancanza di assistenza sanitaria nel paese perché questo è un diritto di base al quale debbono provvedere dalle strutture sociali del paese. La nostra presenza è un richiamo e un segno sacramentale: la società del Sud Sudan, e del mondo intero, non può dimenticare e abbandonare i più vulnerabili tra loro. É la manifestazione che l’amore di Dio è presente, non importa quanto la situazione possa essere buia e difficoltosa».

Quando Joana arrivò in Sud Sudan «la mia prima impressione – ha raccontato- è stata di shock: non avevo mai visto così tanta povertà materiale. Un primo impatto molto forte, l’aeroporto era fatto di tende, non c’era una struttura. Quando sono scesa dall’aereo, ho camminato sulla pista, ho visto la mia valigia sotto una tenda, mi hanno messo un timbro e fine. Un popolo molto disorganizzato, tutto un paese senz’acqua e senza elettricità. Nemmeno nelle zone più povere dove ero stata in precedenza avevo trovato così tanta povertà materiale».

«Quindi – dice oggi – il mio sogno come suora missionaria comboniana non è solo di fornire un aiuto ai bisogni medici delle persone, fin dove è umanamente possibile, ma di seguire le orme di Gesù, che andava in giro “facendo il bene”. E come suora comboniana, seguo il nostro carisma nello sviluppare concretamente l’apostolato e il mio è essere tra i sud-sudanesi». Il metodo di Daniele Comboni è quello di salvare l’Africa con l’Africa.

Dal Ciad al Perù


C’è chi va in missione partendo da terre che sono da sempre luogo di missione. Suor Benjamine Kimala Nanga è una comboniana proveniente da Ciad che, dopo un periodo in Spagna dove ha studiato e lavorato nella pastorale dei migranti, dei giovani e di animazione missionaria, vive e lavora da sei anni in Perù. Qui si occupa della prevenzione contro la tratta di persone e da circa un anno vive in una zona, il distretto del Carmen (Chincha Alta), che è la culla degli afrodiscendenti peruviani.

Come ella stessa ci scrive: «vivo la missione come una chiamata di Dio, questo Dio che cammina con il suo popolo, in questo caso con il popolo peruviano nelle sue diverse realtà. La missione per me oggi è camminare con e al passo delle persone che ci accolgono dalla loro realtà. Il mio servizio missionario nella prevenzione della tratta di esseri umani mi ha portato a conoscere le situazioni socio-politiche, economiche ed ecclesiali del Paese. Questo apprendimento mi ha spinto a vivere la mia presenza missionaria con i piedi sulla terra peruviana e con il cuore pieno di speranza in Gesù Cristo. La dimensione del lavoro nelle commissioni permanenti della Conferenza dei Religiosi ( GPIC -Diritti Umani e Rete Kawsay) del Perù, con la Rete Talitha Kum (inter-congregazionale) sono stati per me spazi di dare e ricevere».

Kawsay, una parola quechua che significa vivere, è una rete composta da più di 38 congregazioni religiose e da alcuni sacerdoti diocesani.

Non ci sono cifre ufficiali ma secondo l’ufficio del difensore civico, lo scorso anno sono scomparse circa cinquemila persone. Di queste, 1.506 erano donne adulte e 3.510 ragazze. In media scompaiono 15 persone al giorno, una ogni due ore. Secondo la polizia, le sparizioni sono legate alla violenza di genere, al traffico di esseri umani, ai traumi familiari. E manca un sistema standard di rintracciamento rapido delle donne scomparse. Durante il lockdown, l’organizzazione per i diritti umani in Perù ha denunciato soprattutto la scomparsa di adolescenti in fuga da una vita di violenza che vengono rapiti o finiscono per essere trafficati.

La missione vissuta da queste giovani donne che si sono messe in cammino partendo da varie parti del mondo, sono uscite verso altre terre, altri popoli e altre culture, è un percorso di trasformazione personale oltre che di evangelizzazione. Per questo Lourdes può dire: «vivere qui nel Medio Oriente ha arricchito il mio essere missionaria. Ho appreso tanto dalle diverse culture e religioni di questa terra, ne risente positivamente il modo di esprimere la mia fede».

È un cammino che trasforma il modo di sentirsi parte della Chiesa. Così ci dice Joana: «non posso essere una donna consacrata se non facendo parte della Chiesa, come comunità di credenti, come “cenacolo di apostole”. Essere qui, in Sud Sudan mi chiama a camminare insieme, a non cercare un passo diverso, più lento o più veloce, ma quello della chiesa concreta che vive, si incarna e celebra la vita stessa di Gesù Cristo».

Tutto questo richiede un nuovo modo di essere consacrate missionarie, una metodologia che, come afferma Benjamine: «vede il centro nel Vangelo come pienezza di vita, ecologia integrale nel linguaggio di oggi. È importante che continuiamo ad evangelizzare e a lasciarci evangelizzare dalle periferie esistenziali, dalle nuove vie di evangelizzazione, per combattere l’ingiustizia e lo sfruttamento delle persone alla radice, in particolare attraverso la prevenzione. È un lavoro trasversale a tutto ciò che facciamo e viviamo; è prendersi cura della vita nella sua totalità”. E conclude: «continuerò ad imparare e a condividere il mio essere missionaria comboniana africana anche qui in Perù con gli afro-discendenti, figli e figlie degli schiavi strappati all’Africa».

Gabriella Bottani e Mariolina Cattaneo
Suore missionarie comboniane

Fonte: Donne Chiesa Mondo – Mensile dell’Osservatore Romano

(Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore del quotidiano edito nella Città del Vaticano)