Non c’è «migliore politica» senza sporcarsi le mani con la realtà. L’insufficiente somma di tecnica e filosofia. (L’Osservatore Romano).

 

Certe persone dimenticano che essere informati non significa essere esperti. La mole di notizie che si riceve quotidianamente potrebbe dare questa illusione. Ma non è così. Né basta, per giunta, essere competenti. Serve, ed è ciò che manca, la competenza e l’autorevolezza di chi decide. Persone che sappiano ascoltare i tecnici, acquisire informazioni, organizzarle e poi deliberare, trovando il comun denominatore delle specifiche competenze nell’interesse generale.

L’articolo è apparso sull’Osservatore Romano del 2 aprile 2022.

 

Guglielmo Gallone

 

«Qui ‘na volta erano tutti virologi», ha scritto giorni fa su Twitter Federico Palmaroli, in arte “Le frasi di Osho”. E ha ragione. Durante le fasi più complesse della pandemia, chiunque era esperto di tamponi, mascherine e vaccini. Oggi tutti parlano a ruota libera di geopolitica e strategia di guerra. In La conoscenza e i suoi nemici (2018) Tom Nichols li chiamava gli spiegatori: «Le persone convinte di essere più informate degli esperti e di avere maggiore acume rispetto alla massa credulona». Niente riesce a fermarli. Neanche una guerra nel cuore d’Europa.

 

Ancor più paradossale il fatto che a certe persone venga dato moltissimo spazio mediatico. C’è chi invita gli spiegatori, ma anche chi li ascolta. Il che è legittimo. Ma pone un problema sull’obiettivo dell’informazione: ascoltare chi si fa portatore di un’idea o voler alimentare un (inutile) dibattito mediatico intorno al proprio prodotto? Pochi dubbi sul fatto che, alla fine, chi ci guadagna sono proprio loro, gli spiegatori: tanto ascolto, troppa attenzione, poca comprensione. Ma finché lo spettatore deve solo annuire va tutto bene.

 

Eppure, certe persone dimenticano che essere informati non significa essere esperti. La mole di notizie che si riceve quotidianamente potrebbe dare questa illusione. Ma non è

così. La parola esperienza, che deriva dal verbo latino experiri, significa tentare, mettere alla prova, esporre al rischio sé stessi e le proprie competenze. Avere esperienza è diverso dal fare esperienza. Lo ha sottolineato bene il cardinale Gianfranco Ravasi in Scolpire l’anima. 366 meditazioni quotidiane (2020): «È solo quando diventa soggettiva, cioè elaborata consapevolmente, giudicata, che l’esperienza si trasforma in una componente feconda che arricchisce la vita». Se manca questo passaggio, le esperienze rimangono medaglie appese al petto.

 

Paradossalmente, però, in questi tempi è stato fatto un passo in più: si è capito che neanche la competenza basta a governare il mondo. Michel de Certeau lo sottolineava già nel 1980 quando, in L’invenzione del quotidiano, affrontava il tema dell’illusione degli esperti: «In questa società l’esperto prolifera al punto di diventare la figura prevalente». Oggi si parla di comitati tecnico-scientifici, virologi, analisti, economisti, politologi nelle istituzioni, nelle aziende, ma anche sui giornali, nei dibattiti televisivi e sui social. Gli esperti sono ovunque. Eppure, le tre grandi crisi che hanno scardinato l’ordine contemporaneo hanno preso tutti alla sprovvista: nel 2007 il crack economico-finanziario con lo shock del mercato immobiliare e dei mutui subprime; nel 2020 una pandemia (non ancora finita) ha provocato, fino a oggi, sei milioni di vittime nel mondo; infine la guerra in Ucraina.

 

Tutta colpa degli esperti, quindi? No. Nessuno ne mette in dubbio la professionalità e il ruolo. Piuttosto, quella che sembra mancare è la competenza e l’autorevolezza di chi decide. Persone che sappiano ascoltare i tecnici, acquisire informazioni, organizzarle e poi deliberare, trovando il comun denominatore delle specifiche competenze nell’interesse generale. Responsabilmente. Sembra proprio mancare la «migliore politica» di cui Papa Francesco parla nella Fratelli tutti. Quella politica che, per essere realizzata, ha bisogno tanto di conoscenze ottenute attraverso lo studio e l’informazione, quanto di doti personali: contatto con la realtà, comprensione, intuizione, osservazione, ponderatezza, prontezza, spirito d’iniziativa, visione. Ma anche l’attitudine a pensare al proprio Paese nel medio e lungo periodo. Cogliere l’essenziale. Prevedere le conseguenze delle scelte. Saper comunicare. Riprendendo de Certau, solo la «curiosa operazione che converte la competenza in autorità» può permettere di «passare dal linguaggio tecnico a quello più comune». Ed è proprio questo passaggio che sembra mancare.

 

Per deliberare non basta essere profondamente esperti in una o più materie. «Abbiamo bisogno — dice il Papa nella Fratelli tutti — di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi». Se chi analizza si ferma, appunto, a fare un’analisi su un certo argomento, chi governa deve passare all’azione e, per farlo, deve compiere altri due passaggi: sintetizzare e decidere.

 

Ecco, dunque, perché ci sono pochi dubbi sul fatto che governare è un’arte. Ed è l’arte più difficile, poiché deve porsi a metà, o al di sopra, di quelli che de Certau individuava come «il tecnico e il filosofo». Se certe qualità mancano, possono compromettere le sorti di tutti. Decidere richiede quindi non solo competenze, ma carattere e capacità. La politica dovrebbe essere un po’ come la Chiesa intesa da Paolo VI : «esperta di umanità». E di umanità la politica ha bisogno per pulsare, pompare sangue alla democrazia e costruire le arterie della comunità.