Articolo pubblicato sul giornale “Adige” e qui pubblicato per gentile concessione dell’autore

Ci sono due recentissimi fatti nuovi nel percorso di ricostruzione della “politica” in Italia.
Il primo è rappresentato dalla nascita di “Base”, Associazione promossa da Marco Bentivogli.
“Base” richiama un approccio alla politica capace di andare oltre la logica della “discesa in campo” (dall’alto) dei personaggi più gettonati del momento: appare piuttosto un serio tentativo di ricostruire innanzitutto una “buona domanda”, premessa essenziale per una “buona offerta”.

In altre parole, un tentativo di ricostruire una “trama” di comunità, senza la quale non vi è “buona politica”, ma solo populismo.
“Base” – secondo le dichiarazioni dei promotori – non intende essere una nuova, l’ennesima, “bandierina partitica”, ma una esperienza aperta, che concorre a ricostruire una nuova cornice di rappresentanza politica delle culture popolari e liberal democratiche del Paese.

Il secondo fatto nuovo è rappresentato dalla decisione dei sottoscrittori del “Manifesto Zamagni” di avviare il percorso per la costituzione di un “soggetto politico” esplicitamente riferito alla cultura del popolarismo di ispirazione cristiana, con l’obbiettivo di tradurre sul piano della laicità politica – e fuori da ogni tentazione confessionale – le ricorrenti esortazioni di Papa Francesco ad un “nuovo umanesimo”, assicurando così un contributo alla rigenerazione dello spirito di comunità e del “senso” della democrazia.
Questi due “fatti nuovi” (ancora agli esordi) sono tutt’altro che in contrapposizione l’uno con l’altro e per questa ragione, personalmente, ritengo che meritino entrambi sostegno e adesione.

Occorre rigenerare ed attualizzare (con le innovazioni dovute al contesto sociale e culturale oggi radicalmente mutato) le culture politiche di riferimento, compresa quella del Popolarismo di ispirazione cristiana. Perché senza le proprie culture fondative, benché in trasformazione costante, la politica diventa arida e perde la propria bussola valoriale.
Nello stesso tempo, occorre mettere in campo nuovi strumenti di rappresentanza politica capaci di dare voce ad una larga parte di cittadini oggi sostanzialmente “apolidi” nel contesto nazionale.

C’è bisogno di un nuova proposta politica plurale, che si ispiri alle culture popolari e liberal democratiche e abbia l’ardire di una visione coraggiosa a fronte delle tre grandi sfide del nostro tempo: la crisi demografica, la transizione digitale, l’emergenza ecologica globale. Perché attorno a queste tre sfide si gioca la partita vera per una società inclusiva e per la ri-legittimazione della democrazia rappresentativa.
Per questo, serve immaginare una nuova idea di “partito”.

Non sembrano più agibili i “partiti identitari” (e men che meno, per restare nel campo della mia appartenenza, ha fondamento alcuno la mera riproposizione di un “partito cattolico”).
Per converso, vediamo la fragilità di partiti – come il PD – nati sul presupposto di unire varie identità senza però che ciò abbia prodotto né una nuova sintesi culturale, né un sistema che valorizzi le diverse culture politiche costitutive.

È poi sotto gli occhi di tutti l’esaurirsi della stagione dei partiti che hanno puntato a colmare il deficit di base culturale con il solo protagonismo della leadership personale.
Parimenti precaria appare l’esperienza di “partiti non partiti”, come il M5S, che hanno fondato la propria mission su una generica e indistinta funzione di collettore dei bisogni individuali attraverso la Rete.

Gettonata in questo momento, ma non priva di elementi inquietanti, sopratutto al Sud, appare la strada dei “Partiti del Governatore” di turno.
Tutte queste esperienze portano dentro elementi di giusta novità e contraddizioni insanabili: sono la manifestazione di una patologia, non la soluzione.
Forse è maturo il tempo di pensare ad un sistema della rappresentanza politica fondato su due gambe.

Quella da un lato di “movimenti” organizzati, capaci di tenere vive e di attualizzare le culture politiche di riferimento (in fondo, i valori politici sono “propri” della comunità, non dei partiti, che hanno il compito non già di produrli, ma di rappresentarli e valorizzarlI dentro le istituzioni democratiche) e quella, dall’altro, di “partiti” di nuova concezione, che aggreghino ed organizzino questi movimenti (senza assorbirli e senza annullarli) dentro “contenitori” politico-elettorali idonei a dare risposta alla domanda di governo del cambiamento.

L’Italia ha bisogno di radici culturali e ideali ed assieme di un “bari-centro” politico che manca da decenni.
Sarà interessante vedere se questo processo si affermerà a livello nazionale o se tutto naufragherà nelle solite liturgie.
Ancor più interessante sarà vedere se il Trentino, terra da sempre vocata ad essere laboratorio politico, saprà esserlo ancora una volta, con proposte anticipatrici e con soluzioni adatte alla propria natura e alla propria ambizione (continuiamo a sperare) di “Comunità Autonoma”.

“Autonoma” sul piano dei progetti di governo e dello status istituzionale, ma anche su quello delle formule e delle esperienze politiche, costruite “qui” e “confederate” con i soggetti politici nazionali, specie se in via di formazione.
Qualche esperienza maturata in occasione di queste ultime elezioni amministrative – in primis a Trento ma non solo – lascia ben sperare. Ma la strada è lunga ed il lavoro enorme. Diamoci da fare.