Articolo apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Annalisa Teggi

Ho sempre considerato Oscar Wilde un autore respingente, perciò l’ho respinto: mi pareva sempre in cerca di un pubblico, poco interessato a essere amico del lettore. Ma la parte più bella di una cantonata è quando ci si accorge di averla presa, e si cambia rotta. Nel mio caso è accaduto quando ho incrociato un insolito ritratto domestico della famiglia Wilde ed è stato come attraversare una porticina con accesso all’ala più intima e accogliente di un grande castello. Per la prima volta non c’erano etichette su dandy ed estetismo a separarci, c’era lui, un padre, che parlava a me, una madre.

È un episodio che riferisce il suo biografo H. Montgomery Hyde e ci catapulta in uno di quei momenti che noi genitori conosciamo bene: rispondere a certe domande dei figli e ritrovarsi a ricevere spiazzanti lezioni di vita. È il 1888 e Oscar Wilde racconta a un conoscente un interessante scambio di battute col figlio di tre anni: «Uno o due giorni fa Cyril venne da me con una domanda: “Papà, tu sogni mai?”. “Certo, mio caro. Sognare è il primo dovere di un gentiluomo”. “E cosa sogni?” mi chiese Cyril, con quell’appetito disgustosamente grande per i fatti che hanno i bambini. Quindi io, ritenendo che, di sicuro, si aspettava da me qualcosa di bizzarro, parlai di cose magnifiche: “Cosa sogno? Oh, sogno draghi con scaglie d’oro e d’argento, che emettono fiamme scarlatte dalla bocca, sogno aquile con occhi di diamante che possono contenere il mondo intero in uno sguardo, sogno leoni dalle criniere gialle e voci di tuono, di elefanti con piccole case sui dorsi, e tigri e zebre con manti a righe e macchie”. Diedi sfogo così alla mia fantasia, finché, osservando che Cyril era completamente disinteressato e anche chiaramente annoiato, misi un umiliante punto fermo alle mie parole e dissi: “Ma dimmi, tu cosa sogni, Cyril?”. La sua risposta giunse come una rivelazione divina: “Sogno i maiali” disse».

Se Dio dovesse manifestarsi all’improvviso dentro un banale momento della nostra vita, credo che il suo sguardo ci farebbe tremare di gioia e terrore davanti a una foglia. Ci farebbe sobbalzare indicandoci il profilo di una collina. Quanto è vero che la nostra inerzia quotidiana ci nasconde la potenza deflagrante che è la presenza della realtà: fissiamo tutto come fosse tappezzeria. Releghiamo il fantastico all’immaginazione, intendendola come una fuga dal monotono qui e ora. Invece l’immaginazione è l’opposto; è una risorsa «salvavita» proprio perché è quel regno così poco astratto in cui anche un maiale può diventare ciò che davvero è: un’apparizione, una figura degna di ammirazione per l’unicità indiscutibile del suo aspetto e delle sue abitudini. Nessuno lo disse meglio di Flannery O’Connor: «Una cosa è fantastica perché è tanto reale, e tanto reale da essere fantastica».
Lo sguardo di un bambino ci ricorda che ci fu uno che cominciò l’impresa migliore di tutte meravigliandosi di ogni presenza perché «vide che era cosa buona».

In tutta la sua mirabolante vita Oscar Wilde fu attratto da tantissime esperienze, passioni, ipotesi artistiche, ma di fronte alla risposta sintetica e clamorosa di Cyril trovò appropriato scomodare l’espressione rivelazione divina, per descrivere il contraccolpo ricevutone. La rivelazione ha molto a che fare col togliere, con il levare veli dagli occhi e staccare strati di dura corteccia dall’anima: ritrovarsi nudi di fronte a una presenza. Che sia la risposta di un bambino a vibrare un colpo di stupore così intenso tradisce forse l’immagine edulcorata e stereotipata dell’infanzia, ma non tradisce affatto l’ipotesi per cui ci si deve far piccoli per entrare nel regno del cielo.

Sette anni dopo quello scambio domestico con Cyril, la parola «rivelazione» bussò di nuovo alla porta di Wilde da quell’abisso di sofferenza che fu la sua permanenza in carcere. In quella cassa del tesoro che è il De profundis (scritto di getto in prigione, dopo quasi due anni in cui gli fu impedito di leggere e scrivere) il cuore di colui che spesso è ritenuto solo una riserva sconfinata di aforismi intuì: «il dolore non è un mistero, è una rivelazione».
Lo sguardo limpido di un bambino ci può spogliare di ogni maschera, ma il dolore toglie persino la protezione della pelle: la rivelazione che riceve chi patisce la prova dell’umiliazione e della sofferenza è starsene scorticati di fronte alla presenza di sé … e dunque anche di fronte alla presenza dell’Altro. In carcere Oscar Wilde rimuginò sul mito di Marsia, scuoiato per punizione e rimasto muto, e osò rilanciare l’ipotesi che la ferita che strappa senza ritegno il velo protettivo dell’epidermide possa essere una benedizione: «Il momento supremo per un uomo è, senz’ombra di dubbio quando si inginocchia nella polvere, si batte il petto e confessa i suoi peccati».

Ecco la rivelazione del dolore, lo scuoiamento che è via crucis verso una chiarezza che è molto simile alla purezza intravista negli occhi di un bambino.
Non è solo un caso che la parola rivelazione leghi l’uscita di Cyril sui maiali e l’esperienza della prigione: la piccolezza è il traguardo di chi prende sul serio la prova del patire. Privato di ogni ombra di apparenza, messo a tu per tu solo con la sofferenza, la pena e forti tormenti intimi, dal buio della propria notte in carcere Wilde ci donò l’azzardo che il dolore possa essere l’estrema chiamata a farci bambini: «Avevo toccato la mia anima, oserei dire, nella sua ultima essenza. Ne ero stato il nemico, in molti modi, ma infine la trovai ad aspettarmi come un amico. Venire in contatto con la propria anima rende semplici al pari di un bambino, proprio come Cristo ci raccomanda di essere».

C’è speranza più confortante del poter constatare che, nonostante i nostri mille possibili tradimenti, la nostra anima rimarrà ad attenderci come un amico? Potremo voltarle le spalle inebriandoci di draghi e aquile e tigri, ma se decideremo di tornare a casa starà ad accoglierci con l’aspetto dimesso, eppure così domestico, del maiale.

Cosa ci riporta a casa? Non c’è da scandalizzarsi nel dire che talvolta solo un pianto viscerale pulisce davvero la vista; il dolore ci ricorda che non siamo padroni ma figli.
E quando l’orizzonte è così terso dagli inganni, quando la carne brucia senza la pelle delle molte maschere che possiamo indossare, ecco si delinea da capo all’orizzonte l’avventura che ci accompagna dalla nascita all’ultimo respiro: «Ma saper riconoscere che l’anima dell’uomo è inconoscibile è la suprema vittoria della saggezza. Il mistero finale è l’essenza dell’io. Quando si è pesato il sole sulla bilancia, misurati i passi della luna, disegnata la mappa dei sette cieli, stella dopo stella, rimane ancora l’io. Chi sa calcolare l’orbita della propria anima?» (De Profundis).