Pandemia della solitudine

Questo virus ci sta sconfiggendo, ci uccide e ci ammorba, ci rende poveri e deboli, isolati e senza approdi.

Le gocce di pioggia che scorrono sui vetri confondono lo sguardo sull’esterno: ma le strade sono profonde e vuote, spezzate allo vista di chi vi cerca una direzione, desolate e prive di vita, grigie e senza presenze.

Sono gocce che assomigliano alle lacrime di un’umanità assente, lontana e dolente, imperscrutabile e come scomparsa allo sguardo di chi la cerca: per una parola, un saluto, uno sguardo, un contatto.

Dove sono finiti gli altri che riempivano la nostra vita e  in cui ci specchiavamo?

Ci era stato detto che dopo il primo duro colpo ci saremmo salvati, che le azioni e le scelte dell’uomo avrebbero avuto il sopravvento. 

Ma l’impreparazione, la superficialità dilagante e la forza oggettiva della natura hanno avuto il sopravvento.

Dopo la parentesi dell’ottimismo della volontà siamo ripiombati improvvisamente nel limbo oscuro del pessimismo delle evidenze: anche Max Weber aveva scritto che la democrazia non è arbitrio, ci sono limiti da rispettare. Per consentire le evasioni mondane stiamo perdendo a poco a poco la scuola: l’errore fondamentale è stato estrapolarla dal contesto, considerarla un fortino inespugnabile, attrezzarla con colpevole ritardo anche ignorando la vita senza regole che le pulsava intorno, accerchiandola.

Ci restano solo rappresentazioni simboliche e ricordi di abitudini dalle quali dobbiamo separarci, fosse possibile definire ‘abitudini’ incontrarsi, parlare, amarsi, ridere, stare insieme, condividere le visioni di cui parlava Prospero ne ‘La tempesta’ di Shakespeare: “siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”… “folli e liberi di parlare alla luna, stolti nel non prestarle ascolto”.

Non solo dei sogni ci stiamo privando ma anche delle certezze emotive del presente: il nemico è più forte e non esiste ancora un tampone che misuri positività e negatività dei sentimenti, viviamo una sorta di sbaraglio esistenziale e la stessa coesione sociale, non certo in nome di civiltà e umanità, viene riparametrata alle età della vita, agli indici potenziali di sopravvivenza, l’alternanza generazionale è vissuta come conflitto non sostenibile, più di uno ha adombrato senza mezze misure e senza pudore una specie di selezione della specie umana: gli anziani sono ora colpevoli di aver vissuto troppo a lungo, persino di aver goduto della stagione del boom economico. Parole agghiaccianti che lasciano il segno.

Dimenticando che l’oggi è il risultato di quello che si è costruito ieri, che non regge il confronto tra la generazione di chi si è rimboccato le maniche e di chi vive di quella rendita ricevuta: divertissement e movide, libertà individuali, benessere e tenore di vita.

Chi addita gli anziani come un peso sociale si legga il libro di Luca Ricolfi, “La società signorile di massa” che spiega cosa è accaduto in Italia dal 1960 ad oggi: anche se l’autore giustamente osserva di essere già anziano per essere capito nella sua ineccepibile analisi dei comportamenti individuali e sociali.

Siamo di fronte all’impensabile: ad una ad una ci vengono tolte le piccole libertà della nostra esistenza, viviamo confinati in un esilio di cui non conosciamo la permanenza, la durata, la via del ritorno.

Ci restano pallide rappresentazioni di una realtà che si sta sgretolando e infrange i riti di una quotidianità un tempo persino fin troppo noiosa per essere apprezzata.

Così il nostro punto di vista non è quello di Lucrezio, evocato da Hans Blumenberg, perché non siamo  spettatori che dalla terra ferma guardano in lontananza il naufragio: da tempo la condizione post-moderna dell’uomo è “l’immedesimazione nel presente”, quindi al tempo stesso l’essere oggi spettatore e naufrago, nel loro identificarsi. Perché non siamo salvi, ma esposti all’incombenza di un pericolo silente e nascosto.

Per quanto ci sia possibile cercare spiegazioni e rappresentazioni esplicative di quanto sta accadendo, forse è la prima volta nella storia che le raffigurazioni delle risposte che scienza e politica sanno darci  sono talmente mutevoli e cangianti  da non riuscire ad innervare nella coscienza la simultaneità delle loro realizzazioni e neppure la parvenza di un orizzonte scrutabile.

Questo virus ci sta sconfiggendo, ci uccide e ci ammorba, ci rende poveri e deboli, isolati e senza approdi.

Tutti cercano risposte ai mille interrogativi del passaggio silente e assassino di un killer spietato e inafferrabile: l’umanità è talmente composita e caleidoscopica nei comportamenti da rendersi perfino imprevedibile e irrazionale, ingovernabile senza che qualcuno ne sia l’unico colpevole.

Solo toccando con mano la sofferenza ci si rende conto che la scienza non ci detta solo regole punitive ma ci indica l’unica via percorribile, mentre la politica fatica a starle dietro a colpi di DPCM che si correggono e si contraddicono tra loro. Ed è un aspetto che rileviamo qui ma che riguarda il mondo intero.

Sento le opinioni di molti sapienti depositari della verità: si va dagli ortodossi ai negazionisti, passando per i cogitanti e dubbiosi, i teorici del complotto, gli indifferenti, i diligenti e i virtuosi e solidali.

Ma il virus killer non adotta categorie morali, colpisce nel mucchio e semina il terrore.

Ora che siamo ricaduti nella desolazione del ripartire da capo ci rendiamo conto che avremmo bisogno di una politica competente e lungimirante, di una scienza solida e chiara, di comportamenti sociali ispirati a senso civico e responsabilità. Metaforicamente stiamo diventando monadi isolate che non comunicano se non incertezze, desolati e con un senso di abbandono lacerante , soggetti fragili e quasi defedati, privi di motivazioni forti, incapaci di scelte coraggiose e coerenti.

La paura prevale e spinge all’isolamento anche gli impavidi organizzatori di bagordi: parlano tutti, anche gli influencer e dicono la loro: la stupidità non ha confini e partecipa al contagio e all’intorbidimento del pensiero, all’incoerenza delle azioni. C’è un mix indefinibile di angoscia collettiva che attraversa il pianeta e ci spinge verso una solitudine senza approdi, qualcosa che non avremmo mai immaginato di vivere ma che sta diventando la condizione antropologica prevalente di questo tempo indefinito.