Tratto dall’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese (7 Giugno 2019)

Dalla caduta del regime di Siad Barre, il 26 gennaio del 1991, la Somalia è precipitata in uno stato di anarchia, nonostante i ripetuti interventi, a volte controversi, della comunità internazionale e la presenza a Mogadiscio di un governo internazionalmente riconosciuto. La dicono lunga sia i frequenti attentati perpetrati dagli estremisti al Shabaab e la persistente parcellizzazione del Paese, determinata dalla struttura clanica del tessuto sociale.

Per comprendere questa fenomenologia occorre rilevare che in termini generali, nel Corno d’Africa — e dunque anche in Somalia — non si verificò una decolonizzazione in senso proprio perché le indipendenze furono soprattutto il prodotto della sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, anziché essere il punto d’arrivo di un confronto serrato tra colonizzatore e colonizzati. Come ebbe a scrivere pertinentemente lo storico africanista Gian Paolo Calchi Novati, in Somalia, «la fusione in unico Stato dei possedimenti italiano e inglese (ndr. Somaliland) all’atto dell’indipendenza fu un’eccezione al principio dell’indipendenza territorio per territorio sulla scorta della geopolitica del colonialismo».

Ecco che allora si affermò il Pansomalismo, inteso come programma politico nato nell’immediato secondo dopoguerra, che rivendicò un unico Stato-nazione per tutti i somali sulla base di una cultura condivisa, contro le divisioni claniche e i confini coloniali. Con il risultato, però, che la Lega dei giovani somali, il partito che l’Italia dopo le iniziali reciproche diffidenze finì per investire del potere durante l’Afis (l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia, su mandato delle Nazioni Unite, che durò dal 1950 al 1960), affondò sì le sue radici in un’élite urbanizzata e tendenzialmente aperta alla modernità, ma nessun personaggio politico somalo d’allora poté fare a meno delle opportune referenze al mondo clanico, agli anziani e alle tradizioni etniche.

Rimane il fatto, indiscutibile, che la formazione della classe dirigente somala fu comunque la principale delle preoccupazioni italiane in quel periodo. Il Paese africano, in effetti, durante l’amministrazione fiduciaria, venne dotato gradualmente di un sistema parlamentare, di un esecutivo, di una costituzione e di forze armate efficienti e ben addestrate. Sta di fatto che, al momento dell’indipendenza, la maggioranza dei politici proveniva dalla scuola di preparazione politico-amministrativa istituita a Mogadiscio dall’Afis e possedeva una laurea in scienze politiche o in giurisprudenza; un analogo iter formativo era stato seguito per i quadri dell’esercito e della polizia.

Ben presto però emersero non poche difficoltà legate in parte all’economia locale — i somali continuarono ad essere per circa il 70 per cento pastori seminomadi e in misura minore agricoltori-allevatori dediti a un’attività di auto-sussistenza — e al contesto internazionale profondamente segnato dalla guerra fredda. D’altronde, i dirigenti somali erano figli di una cultura nomadica fortemente tradizionale, avevano subito l’influsso dell’amministrazione britannica (il Somaliland si fuse con il resto del Paese nel ’60) e di quella italiana e parlavano almeno quattro lingue: somalo, arabo, inglese e italiano. Gradualmente, dopo l’indipendenza, molti di loro cominciarono a seguire corsi di perfezionamento in Egitto e in altri Paesi arabi, mentre con l’avvento di Barre al potere nel ‘69, si consolidò l’influsso politico e culturale dei Paesi del blocco sovietico. Ecco che allora fu impresa assai ardua, se non addirittura impossibile, riconciliare concetti giuridici e amministrativi appresi all’estero, spesso tra loro in contraddizione, e comunque antagonisti rispetto alle norme comportamentali in uso nei rispettivi clan di provenienza.

In altre parole, come ben evidenziò nel corso di una illuminante conferenza Basil Davidson, autorevole storico africanista britannico, l’apparato statale somalo racchiuse in quegli anni dentro di sé numerosi elementi in contraddizione tra loro, ignorando in gran parte gli aspetti tradizionali della società autoctona. A questo riguardo, un interessante dossier pubblicato da «Nigrizia», nell’aprile del ‘97, a firma di Diego Marani, evidenziò come il codice civile, improntato al diritto di famiglia italiano, non includeva molte delle norme tradizionali raccolte nei testùr somali. Per non parlare del codice penale, basato prevalentemente sul diritto nostrano, che non prevedeva in alcun modo il concetto di responsabilità collettiva in rapporto all’organizzazione delle famiglie somale in gruppi allargati. Con queste premesse è chiaro che oggi la volontà d’imporre una versione estrema della “shari’a”, da parte, prima delle Corti islamiche a Mogadiscio, poi degli al Shabaab, non sorprende affatto. S’impone pertanto l’esigenza di una mediazione culturale e religiosa prima ancora che politica, evitando così di dichiarare spacciato un intero paese; anche perché l’attuale frammentazione della Somalia confuta nei fatti l’aspirazione pansomala.