Torna il proporzionale, cresce la partecipazione – almeno così pare -, si riscopre addirittura la collegialità decisionale a livello politico. Manca solo un tassello, il più importate. E cioè, tramontano anche i cosiddetti “partiti personali”? La domanda, credo, è legittima perché la seconda repubblica è stata praticamente dominata dalla personalizzazione e dalla spettacolarizzazione della politica. Due derive che hanno prodotto, com’è naturale conseguenza, la stagione dei partiti personali, appunto.

Ovvero, luoghi politici dove tutto dipende esclusivamente dalla fortune esistenziali del capo o del guru. E’ persin ovvio dedurre che il confronto politico, l’approfondimento politico, la crescita di una casse dirigente autorevole e responsabile in partiti del genere sono banditi alla radici. Semplicemente non esistono per la semplice ragione che tutto dipende dal capo. Dal sue scelte, dai suoi umori e dalla fedeltà nei suoi confronti. Dalle candidature alla linea politica, dalla polemica contro gli avversari alla mediazione necessaria per arrivare ad un accordo, dalle alleanze da stipulare di volta in volta alla propaganda da condurre in televisione, sui giornali o nella rete. Insomma, un pensiero unico accompagnato dalla totale identificazione del partito, cioè del cartello elettorale, con il suo capo assoluto, riconosciuto ed osannato dai suoi fedeli.

Ora, per non illudersi anzitempo, quella stagione e’ del tutto alle nostre spalle? Ovviamente no. È appena sufficiente prendere atto, oggettivamente, che cosa sono, per restare nel campo del centro sinistra, i partiti di Renzi e di Calenda per rendersi conto che i “partiti personali” continuano ad esistere. Per non parlare dell’eterna Forza Italia o della sempre più forte Lega di Salvini.

Ma, al di là dei singoli casi, quello che non si può non cogliere in questa specifica fase storica e’ che il clima complessivo spinge verso una dimensione della politica più partecipativa e meno solitaria, più collegiale e meno autocratica. E quando soffia il vento di una presenza più attiva dei cittadini alle vicende della cosa pubblica, prima o poi qualcosa capita. Certo, nessuno pensa – per convinzione culturale o per tentazione nostalgica – che il passato possa ritornare. Per capirci, che i partiti del passato possano di nuovo trovare un ruolo nella cittadella politica italiana. Ma un fatto è indubbio. E cioè, non può esserci una buona politica se non ci sono i partiti. I partiti democratici, per capirci.

Cioè, quegli strumenti e quei luoghi politici che hanno una classe dirigente diffusa a livello nazionale e a livello locale; partiti che hanno un saldo radicamento sociale e territoriale e, soprattutto, partiti con una cultura politica che ispira e condiziona le singole scelte politiche e i rispettivi progetti di governo. Cioè, per dirla con Ciriaco De Mita, “partiti che abbiano un pensiero”.

Ecco perché tutto si intreccia. Quando cresce la partecipazione, quando aumenta la domanda di politica e di buona politica, quando la collegialità non è più soltanto un optional o un banale e burocratico richiamo statutario, significa che anche l’ultimo tassello del mosaico è destinato ad arrivare.

Cioè la stagione dei partiti democratici, pluralisti, di governo e non appesi alle virtù salvifiche e miracolistiche dei capi. Se così sarà, non potrà che giovarsene la qualità della democrazia e la credibilità delle stesse istituzioni democratiche.