di mons. Gualtiero Sigismondi Assistente ecclesiastico generale dell’Ac e vescovo di Orvieto-Todi. L’articolo è l’editoriale di «Dialoghi» (4/2020), il trimestrale culturale promosso dall’Ac, in arrivo in questi giorni ai suoi abbonati.

La storia, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene» (Rm 8,28). Dio conduce la storia che si dipana, sotto il suo sguardo misericordioso, nel suo intreccio di bene e di male. Egli, nella sua Provvidenza d’Amore, «tutto dispone con forza e dolcezza». L’opera della salvezza è un “fiume carsico” che scorre nelle “vene” della terra, ma non sfugge dalle mani di Dio. «Niente accade senza che Dio lo permetta – scriveva Madeleine Delbrêl – e Dio niente permette che non possa tornare a sua gloria». Pertanto, occorre leggere negli avvenimenti della storia non soltanto il funesto elenco dei drammi e delle tragedie, ma in primo luogo la potenza e la grandezza del disegno di Dio. Egli, assicura il Salmista, «è per noi rifugio e fortezza, aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce» (Sal 46,2).

Uno degli ossimori più sorprendenti della fede cristiana, felix culpa, ci assicura che Dio ricava il bene da tutto: anche dal peccato, dalla morte, dalla croce, dalla tomba. Egli – recita un noto proverbio portoghese – «scrive dritto sulle righe storte tracciate dagli uomini». Dio volge a provvidenza ogni cosa, crea vita dalla morte, trae dal male un bene più grande, «lo fa servire a un bene» (cfr. Gen 50,20). Egli guida la storia con un preciso disegno, aprendo nuovi spazi al cambiamento di rotta, a una “speranza affidabile” che non delude (cfr. Rm 5,5). «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – dice il Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

Non tutto ciò che accade è volontà di Dio, ma in ogni cosa che capita c’è una via che rimane dentro il suo piano di salvezza. Il deserto è una terra di speranza, è un luogo dove è sempre incipiente, pur nascosta, una fioritura di vita, un’oasi di primavera. Nella desolazione, quando la sofferenza sembra travolgerci, occorre mantenere vivo il dialogo con il silenzio di Dio, attraverso il gemito, il grido, il pianto. Decisivo nell’esistenza del cristiano è continuare a bussare, a domandare, a non temere di porre la nostra debolezza davanti a Lui, dicendogli: «Svegliati! Perché dormi?» (Sal 44,24). Navigando nel mare della vita nessuno è dispensato dalle tempeste e a tutti viene spontaneo dire, come hanno fatto i discepoli: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38).

È consolante credere che Dio, il quale guida il corso degli eventi nel mondo, «non permette che siamo tentati oltre le nostre forze ma, insieme con la tentazione, dà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (cfr. 1Cor 10,13). «Ho sognato – così si legge in un famoso testo anonimo – che camminavo in riva al mare con il mio Signore e rivedevo sullo schermo del cielo tutti i giorni della mia vita passata. E per ogni giorno trascorso apparivano sulla sabbia quattro orme, le mie e quelle del Signore. Ma in alcuni tratti ho visto due sole orme, proprio nei giorni più difficili della mia vita. Allora ho detto: “Signore, io ho scelto di vivere con te e tu mi avevi promesso che saresti stato sempre con me. Perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti più difficili?”. E Lui mi ha risposto: “Figlio, tu lo sai che io ti amo e non ti ho mai abbandonato: i giorni nei quali vedi soltanto due orme sulla sabbia, sono proprio quelli in cui ti ho portato in braccio”».

Il Signore proprio nelle ore più oscure ci prende in braccio, come chi solleva un bimbo alla sua guancia (cfr. Os 11,4), e ascolta il nostro grido, talora simile allo sfogo di Elia: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita» (1Re 19,4), talvolta analogo al lamento del Salmista: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?» (Sal 13,2), talaltra paragonabile alla supplica che gli Edomiti rivolgono a Isaia: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Is 21,11). Questa richiesta, ripetuta due volte, interpreta il pensiero che, nelle circostanze attuali, attraversa il mondo intero, scosso dalla tempesta provocata dal Covid-19, la cui carica virale mostra la drammatica concretezza dell’immagine del “contagio”, a cui Paolo ricorre per indicare come si è propagato il “peccato di Adamo” (cfr. Rm 5,12). L’Apostolo assicura, però, che «il dono di grazia non è come la caduta» (Rm 5,15). Anche di questo stiamo facendo esperienza in una stagione, segnata dalla seconda ondata della pandemia, che contribuisce a trasformare la nostra fragilità in una più forte coscienza di fraternità e di solidarietà, che vede in prima linea medici, infermieri e operatori sanitari. Essi commentano, anche nelle “corsie” degli ospedali da campo, la parabola del buon Samaritano, alleviando il peso della sofferenza e l’estrema solitudine della morte.

Testimonianze così esemplari tengono viva e lieta la speranza, sintetizzata da questo annuncio pasquale: «Ma Dio lo ha risuscitato dai morti» (At 13,30). Si tratta di una formula di fede, pronunciata da Paolo nella sinagoga di Antiochia, che ripropone quella suggerita da Pietro nel discorso tenuto nel tempio di Gerusalemme (cfr. At 3,15) e nella casa di Cornelio (cfr. At 10,40). La storia si regge sul Ma di Dio, che è completamente diverso da quello dell’uomo. Il ma dell’uomo spesso è seguito dal però, creando un cortocircuito sintattico. Il ma dell’uomo sovente è preceduto da un sì che ha la stessa accezione del se. Al contrario, il Ma di Dio non ha né premesse, né postille: è il Ma della luce che dissipa le tenebre; è il Ma della vita che vince la morte; è il Ma della grazia che sovrabbonda là dove abbonda il peccato (cfr. Rm 5,20). Con il suo Ma Dio ha modificato l’orientamento della storia, «sbilanciandola una volta per tutte dalla parte del bene».

Questa certezza di fede impedisce di fare naufragio, da cui ci mette in guardia Papa Francesco, avvertendo che «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi». Per evitare di sciupare questa fase della storia è necessario chiederci: cosa abbiamo imparato e cosa non riusciamo ad apprendere da un’emergenza sanitaria, sociale ed economica che ha reso globale la provvisorietà? Per attraversare questo momento, «che può essere letto come un kairòs per ripensare il passato e avere un disegno nuovo sul futuro», occorre passare dalla logica dell’emergenza alla cultura della progettualità. Servono scelte coraggiose che possano avviare processi di cambiamento di lungo respiro e tracciare percorsi di riforma dagli ampi orizzonti. Occorre trovare il coraggio di innovare, non solo nella società civile ma anche nella comunità ecclesiale. Non si tratta di mettere «un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore» (cfr. Mt 9,16). Non si tratta nemmeno di «versare vino nuovo in otri vecchi, ma vino nuovo in otri nuovi» (cfr. Mt 9,17). Dio non taglia e cuce, ma tesse e ricama; Egli non risciacqua ma ricrea e rinnova.

La comunità cristiana non può limitarsi a rimanere in attesa di vedere se i fedeli torneranno a Messa o agli incontri di catechesi, se si adatteranno a strumenti e modalità nuove di comunicazione, ma deve chiedersi come fare di questa fase così complessa un’occasione di conversione missionaria della pastorale. C’è bisogno di una Chiesa che cammina e si rinnova «dando prova di un eccezionale risveglio di creatività». C’è bisogno di una Chiesa che coltiva l’essenziale, dedicando una cura speciale a una formazione cristiana di grande qualità. C’è bisogno di una Chiesa che riscopre nella domus Ecclesiae l’ambiente vitale della trasmissione della fede. C’è bisogno di una Chiesa che, esplorando un modo nuovo di essere comunità, educa a frequentare l’ambiente digitale e a scoprirne risorse e limiti. C’è bisogno di una Chiesa consapevole che la condizione di piccolo gregge non diminuisce ma accresce la sua vocazione cattolica, quella di contribuire a «far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità». In questo frangente è indilazionabile un cambio di strategia più che di tattica: siamo ancora troppo impegnati a gestire spazi e a organizzare eventi. È necessario, invece, aprire vie nuove: per osare occorre immaginare, per immaginare si deve sognare, per sognare è indispensabile pensare, per pensare non si può fare a meno di ascoltare, per ascoltare è inevitabile camminare insieme e dialogare.