Nel suo Tweet a commento dell’intervista rilasciata dal segretario democratico Zingaretti, Lucio D’Ubaldo ripropone giustamente il tema delle municipalità.
A suo dire, Zingaretti – anche nel ruolo di Presidente della Regione Lazio – nel ragionare sui nuovi scenari del sistema di welfare non ne ha tenuto conto.
Ha ragione. Ma occorre una riflessione di sistema, altrimenti rischiamo di assecondare una spinta statalista e centralista che va contro il futuro del Paese (e la nostra stessa cultura politica)

So benissimo che questa non è l’intenzione di Lucio.
Il problema è che l’emergenza Covid ha dato ossigeno ad una mai sopita cultura statalista – sia verso l’Europa sia verso i poteri regionali e comunali – che considero esiziale e strettamente connessa con le tentazioni nazionaliste, populiste, tendenzialmente autoritarie e “post democratiche”.

Incapaci di “governare” i processi reali che li spiazzano, gli Stati Nazione reagiscono arroccandosi e facendo credere che solo loro possono “difendere” gli interessi dei loro cittadini (almeno quelli considerati tali, posto che per i “nuovi italiani”, che da anni concorrono al nostro benessere sociale ed economico, il riconoscimento della cittadinanza piena risulta ancora una chimera).
Esattamente come il Populismo, lo Statalismo di oggi rappresenta una illusoria scorciatoia rispetto ad un problema reale. Il primo sotto il profilo (presuntuosamente) identitario ed il secondo sotto il profilo del Potere, non fanno i conti con una società sempre più plurale, complessa, tecnologicamente interconnessa ed economicamente e socialmente interdipendente.

Non è questa la via per salvare lo Stato Nazione: serve piuttosto una attitudine resiliente alla “trasformazione evolutiva”. Verso l’alto (l’Europa e le istanze internazionali) e verso il basso (i poteri locali). Con robuste cessioni di sovranità in entrambe le direzioni.
Nel nostro Paese, il tema dei “poteri locali” incontra da sempre due ostacoli rilevanti.
Il primo: la natura intimamente centralista dello Stato.
La Costituzione ha introdotto principi “autonomistici” ma essi non si sono pienamente incarnati nella dinamica reale e quotidiana.

L’opzione regionalista della Costituzione, attuata – salvo che per le Regioni a Statuto Speciale – con più di vent’anni di ritardo, non ha modificato a tutt’oggi né la cultura né la dinamica operativa dello Stato.
Basta valutare le mille strutture statali ancora attive e la moltitudine smisurata di Leggi e Regolamenti emanata da Governo Centrale e Parlamento.

La Riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 è stata un atto di grande coraggio, ma sostanzialmente non è stata interpretata e vissuta con il dovuto spirito. Tanto che oggi, anziché completarla con altrettanto coraggio, tutti ne disconoscono la paternità.
Il secondo ostacolo è rappresentato dallo storico conflitto tra Regioni e Comuni.
Ciò è il frutto avvelenato, da un lato, della tendenza ugualmente centralista di molte Regioni (che non hanno avvertito la natura per loro vitale del rapporto con i Comuni) e, dall’altro, della cinica attitudine dello Stato Centrale al “divide et impera” (si fa per dire, “impera”).
Della serie: meglio che il rapporto con i Comuni rimanga – anche sul piano finanziario – potestà dello Stato Centrale piuttosto che delle Regioni.

Per tutti questi motivi, ritengo che uno dei punti centrali di una strategia di “ripresa” del Paese consista nel ritornare a costruire una prospettiva realmente “autonomistica” per la nostra Repubblica.
Se vogliamo una Italia “a trazione integrale” (nella quale il futuro non sia solo nelle mani delle poche grandi aree metropolitane) occorre ripartire da qui.

Uno Stato Centrale sempre più leggero ma “autorevole” (magari capace anche di stabilire per tempo regole e protocolli nel caso di pandemie globali…) e protagonista nella cessione di maggiore sovranità verso l’Unione Europea e verso i territori.
Regioni che recuperino il proprio ruolo di “governo” di territori dotati di comuni vocazioni e di riconosciute radici culturali e che costruiscano un rapporto essenziale con i Comuni considerati come pilastri della propria stessa legittimità istituzionale.
Municipi che siano consapevoli di avere una “doppia appartenenza”: allo Stato e alla propria Regione.
Ci sarebbero da aggiungere due ulteriori punti.

Primo. La rivalutazione della Riforma delle Province.

La riforma che abbiamo approvato (semplificando la rete delle istituzioni invece che le procedure burocratiche e dei servizi pubblici) ha prodotto una situazione non sostenibile di desertificazione democratica dei territori non metropolitani. Ciò che ci si ostina a definire “territori di area vasta”, sono molto spesso comunità sub regionali che avevano identità, coesione, strumenti di partecipazione democratica e che oggi vivono in totale smarrimento. Sono trattate, appunto, come territori di area vasta e non come Comunità originali.

Secondo. Interrompere la strategia delle “fusioni” dei piccoli Comuni.

In un Paese come il nostro, anziché “eliminarli per fusione”, bisognerebbe stabilire per loro regole semplificate e sostenibili, anche dal punto di vista della governance e delle responsabilità. In molti territori della montagna e delle aree interne i piccoli e piccolissimi Comuni sono un presidio insostituibile sul piano civile e sociale, prima che istituzionale.

Conclusione.

Utilizziamo la questione della “autonomia differenziata” (prevista dal 2001)
per rilanciare una visione autonomista e moderna della nostra Repubblica.
Non è una partita solo veneta o lombarda e men che meno solo “leghista”.
Una stagione di “investimento istituzionale” sulle Regioni che, assieme ai loro Comuni, producano con responsabilità progetti di rilancio della democrazia autonomistica e nuovo protagonismo delle comunità territoriali è interesse vitale per tutto il Paese.
E questa (assieme all’europeismo e alla rivendicazione di un ruolo primario del Terzo Settore) è una prospettiva assolutamente coerente con la cultura politica del Popolarismo.