Per un ruolo politico della tradizione popolare

Riportiamo l'Intervento del nostro amico Dante Monda che si è tenuto ieri alla convention "Le scelte dei democratici di ispirazione cristiana" organizzato dal Movimento Rete Bianca

Come mi capita di dire spesso, il mio ruolo in questi incontri non è fornire risposte, ma aiutare a porre in modo utile e fecondo le domande. Condotta in modo lucido l’analisi e tratte da essa le questioni fondamentali, le possibili risposte risultano più chiare e la scelta fra di esse, se non più facile, più consapevole e dunque più seria. Il problema è il seguente: il ruolo politico della tradizione della politica di ispirazione cristiana. Quale è questo ruolo? In che modo si configura? Come si comunica?

Facciamo un piccolo passo indietro: che ruolo ha avuto negli ultimi venticinque anni la nostra tradizione? Dandone una interpretazione sintetica, l’atteggiamento è stato fondamentalmente difensivo. Il mondo cattolico, come in modo simile il mondo comunista, ha subito un brusco sgretolarsi di un sistema, che già da tempo era in crisi, e il lutto di questa perdita non è stato mai del tutto elaborato. Si è provato per venticinque anni a tornare indietro, a ricercare un’identità perduta, a richiamarsi ai «valori», o a unirsi per sopravvivere, a risistemarsi in un sistema bipolare nel quale si è sempre stati scomodi. Che questa posizione fosse a sinistra, a destra o al centro, si scontava in realtà sempre lo stesso problema che affondava le sue radici già negli anni ’80 e che bisogna avere ben presente anche oggi: l’assenza di un vero e sostanziale passaggio di testimone, ideale ma anche biografico. Il venir meno delle forze. L’incapacità di un ricambio generazionale. Ciò era dovuto, semplificando, al declino latente e poi sempre più accelerato della militanza e ancor prima del consenso.

La storia ha accelerato provocando una rottura. Ma la rottura si è consolidata con la lettura di quella vicenda, che sicuramente ha avuto tratti drammatici, in un’ottica vittimistica e dunque fondamentalmente tragica. Il punto è che finora si è giocato in difesa e dunque si è aggravato il problema non comprendendolo. Non si è compreso che il lento declino della partecipazione popolare minava alle fondamenta ogni rappresentanza, e che tutti i fenomeni di contestazione, ostilità, rigetto, nausea per un’intera classe politica sono stati e sono ancora sintomi di quel problema politico più profondo, a cui si è risposto sempre in modo superficiale, che è il deficit di partecipazione.

Il punto allora è innanzitutto tematizzare il lutto, la perdita di qualcosa che non tornerà più. Detto questo, compreso questo, si può provare a crescere. Crescere, non travestirsi. Non subire il cambiamento climatico esterno mettendosi nuovi vestiti, ma crescere dall’interno, capire che si sta assumendo un nuovo ruolo ed è più naturale un nuovo atteggiamento.
Questo porta a un’altra questione in qualche modo conseguente. Il problema dei «valori». Qualcosa si «valorizza» se è scarsa, è una semplice legge economica. È dunque tristemente comprensibile oggi parlare di «valori», è un uso diffuso che intende spesso una retta intenzione verso il bene delle persone, che avendo difficoltà a farsi strada nella lotta con gli «interessi» più bassi, chiama «valori» alcune cose prioritarie al calcolo e all’utile economico. Eppure il problema è che spesso quando si parla di valori si gioca in difesa.

I valori purtroppo sono evocati per essere difesi, quasi fossero specie protette in via di estinzione. Si lamenta la secolarizzazione come fosse un invasione barbarica proveniente dall’esterno (dall’Ovest e dal Nord… ma oggi si accusa anche il Sud e l’Oriente…) e non si comprende che, secondo l’analisi di cui sopra, il piano si è inclinato da tempo, e in un certo modo è sempre stato inclinato, e siamo noi, sono i cristiani ad aver secolarizzato il mondo, con tutte le tragedie ma anche le meraviglie di questo processo intrecciato all’idea stessa di progresso. Ma soprattutto, chi parla di valori cristiani, magari aggiungendo (tautologicamente) che non sono negoziabili, al fine di «rispondere» alla crisi etico-antropologica attuale e magari addirittura correggerla (!), non comprende che la difesa dei valori è in qualche modo sintomo essa stessa dello smarrimento di fondo, del nichilismo col quale abitiamo da più di un secolo senza accorgercene. Non si comprende che si fa il gioco del nemico.

Invece l’intelligenza che sa discernere rettamente, che coglie l’inesauribile eccedenza della realtà e il suo paradossale mistero, sa che ogni questione è più complessa di quanto appaia al semplice calcolo, e alla stessa semplice troppo umana «valorizzazione». Non spetta a noi stabilire una volta per tutte cosa è la prima priorità per l’uomo e cosa è secondario: occorre prima ascoltare e poi avviare un dialogo mai esaurito. Ascoltare, questo è il punto che è ancora manca. Soprattutto in chi oggi è al potere o vi aspira, che ha come unico modo di sopravvivere il fare chiasso e urlare più forte degli altri. Soltanto da un attenta opera di ascolto delle vere difficoltà e profondi e autenitci desideri delle persone si può ricostruire una comunità oggi debole e smarrita. Soltanto chinandosi e porgendo l’orecchio si può farsi vicini, farsi comunità di relazioni e dunque popolo, trovare un ruolo politico sensato nel contesto concreto della società.
La domanda è: siamo abbastanza forti e convinti della nostra ispirazione, del nucleo vivo della nostra tradizione politica da saper vivere adeguatamente nei nuovi tempi? Siamo abbastanza solidi da essere agili? Siamo abbastanza onesti da non essere ingenui? C’è davvero bisogno di rivendicare un’identità, o semplicemente la si può vivere nei suoi nuovi sviluppi?

La questioni finora toccate nella dimensione pratica sollevano le seguenti domande:
1) Abbiamo le risorse etiche, organizzative e materiali perché avvenga un ricambio generazionale autentico? Non con nuove facce incollate su un articolo di giornale, ma con efficaci contesti di coinvolgimento e fidelizzazione e nuove idee riguardo nuovi problemi.
2) Abbiamo compreso quanto il bene comune implichi una visione laica perché radicalmente aperta proprio in quanto derivata (più o meno consapevolmente non importa) dal pensiero del trascendente? Dunque abbiamo compreso come sia nocivo ogni residuo di atteggiamento difensivo della dottrina (della «legge»), e come sia invece richiesto uno «spirito» dell’inclusione a partire dal quale è possibile ogni scoperta di autentica identità e di feconde differenze nella relazione con l’altro?
3) Infine, si è compresa la necessità di affrontare con radicalità il problema politico di fondo che ha segnato in fondo l’intera storia della Repubblica, cioè il problema della partecipazione? Il voto non basta, lo aveva già capito Sturzo. E sembra che non lo abbiamo ancora capito se le aggregazioni politiche emergono sempre a ridosso delle elezioni e si sgonfiano al seguito di ogni sconfitta. Sembra che i vecchi vizi ritornino in modo compulsivo e quasi ossessivo.

Invece, e concludo, dovremmo avere un coraggio più grande. Dovremmo essere più coraggiosi e osare di più che riproporre il solito vecchio partito. Tantomeno un «partito cattolico». Dovremmo dare un messaggio più forte, perché di questo c’è bisogno. Quale è stato il gesto più rivoluzionario degli ultimi anni? Non tanto i rivolgimenti che da destra si agitano in tutto il mondo: tutte cose in fondo già viste cento anni fa. Il gesto più rivoluzionario resta quello di Benedetto XVI, che ha saputo rinunciare al potere di sovrano assoluto e capo religioso e ha ricondotto la religione alla fede, indicando al temporale il trascendente. Ha ricordato al mondo e ai cattolici, che ancora non lo hanno capito, che l’opera sulla terra è rivolta a un senso ulteriore. Questo esempio dovrebbe farci riflettere. Dovremmo interrogarci se non sia il caso di dare chiari segnali al mondo piccino e banale della politica attuale meramente elettorale che si esprime nelle mode mediatiche e nelle bolle del filtro, cioè nelle nicchie di opinioni isolate. Dovremmo dichiarare con forza che il nostro traguardo è coinvolgere una comunità smarrita e disaffezionata dalla politica, che il nostro vero obiettivo non è questa o quella elezione regionale e nemmeno la frettolosa corsa alle eventuali elezioni politiche che in modo tragicomico si paventano ogni mese da due anni. Dovremmo avere il coraggio di porre i nostri temi prioritari, penso allo sviluppo integrale, alle prospettive del terzo settore, alle politiche giovanili, come temi condivisi dell’intera comunità politica e in grado di includere i lontani, i dimenticati, i diversi da noi. Questo secondo un pensiero tanto più forte quanto più inclusivo, secondo una visione tanto più profetica quanto meno vittimistica e in difesa.
Si dirà che tanta radicalità non è richiesta, che esula da una concretezza politica, che finisce per essere irrilevante. Non sono d’accordo. Guardiamo le Sardine. Pochi ragazzi con tanto entusiasmo che pongono in fondo una questione forte: il fatto che non esiste una vera rappresentanza per loro. All’ennesima crisi della rappresentanza, riemergono le forme di partecipazione spontanea: le manifestazioni di piazza. Ma un futuro dovrebbero avere anche le petizioni, i referendum, un uso intellettualmente onesto della rete. Dunque è evidente che la sfida enorme che abbiamo davanti è quella di tenere insieme rappresentanza e partecipazione, riavvicinare il pensiero politico al dialogo politico che si instaura fra cittadini di una comunità, un dialogo interclassista, intergenerazionale e interpartitico, che coinvolga infatti anche gli avversari politici che concorrono al bene comune.

Riassumendo, in questa fase le questioni scottanti sono: 1) un autentico passaggio di testimone, 2) una serena laicità di proposta di un dialogo e non di difesa di dogmi e 3) un impegno per la democrazia partecipativa e non elettorale, dunque non partitica. Da come si risponderà a queste tre questioni dipenderà il ruolo politico di quello che vuole essere un movimento