Perché conserviamo le email

Probabilmente ci stiamo avvicinando ad una trasparenza totale non criptabile, una sorta di archivio universale. Tuttavia il fatto di non cancellare le mail significa spesso aggrapparci ad una memoria esterna consultabile. Questo ci costringe a viaggiare a ritroso nel tempo per recuperare ciò che potrebbe andare perduto.

 

Francesco Provinciali

 

L’evoluzione tecnologica incessante, utile e per certi aspetti pervasiva, ci aiuta e ci sovviene nel facilitare la comunicazione, l’informazione, la conoscenza di notizie che circolano nell’universo globalizzato del web, imponendoci peraltro una continua selezione per distinguere ciò che può essere vero, attendibile, da verificare o si nasconde sotto le mentite spoglie delle fake news. Anche per i testi che noi stessi componiamo, dal laconico “grazie”, dal saluto, ad una interlocuzione più dettagliata e complessa pc, tablet e smartphone costituiscono ormai un supporto indispensabile, l’hardware e il software dei nostri mezzi sono basi organizzative imprescindibili: nel lavoro, nel tempo libero, persino nelle relazioni più affettive e personali.

 

Una volta per una dichiarazione d’amore si scriveva una lettera, adesso si manda una mail o un ancora più veloce whatsapp. Il nostro account diventa anche – e questo è un aspetto interessante e non ancora adeguatamente studiato – la chiave d’accesso all’archivio che via via abbiamo costruito, siano essi i documenti o le stesse email: mentre per i primi appare logico dotarsi di un catalogo implementabile a cui attingere, le seconde dovrebbero in teoria avere un range temporale di utilizzo più ristretto alle necessità spazio-temporali contingenti.

 

Eppure ci priviamo malvolentieri o per abitudine della “posta elettronica” e spesso ne rimandiamo la cancellazione, anche quando in teoria non serve più, perché obsoleta o lontana nel tempo.

 

Forse la spiegazione consiste nel fatto tecnico: conservare la posta elettronica (come prima facevamo con quella cartacea) ci permette di disporre di un archivio sempre consultabile, forse – ed è qui l’aspetto più intrigante – ci consente di mantenere un legame con gli scritti e le azioni del passato che ha un fondamento persino affettivo; rileggendo un carteggio informatizzato riaffiorano alla memoria dettagli che non sempre con le nostre risorse mentali o per la labilità delle comunicazioni, o ancora per una selezione naturale che ci spinge a ricordare ciò a cui attribuiamo importanza e utilità immediate, riusciamo a metabolizzare e richiamare al presente senza l’aiuto di un testo.

 

Abbiamo perso l’abitudine della scrittura manuale ed autobiografica e questo non è un bene: ad essa è inevitabilmente legata la nostra stessa identità personale, l’intimità inviolabile dello scritto riservato.

 

Eppure – lo vedremo meglio – ci sono sistemi scolastici che vanno abbandonando il corsivo o i libri cartacei a favore della letto-scrittura informatizzata. Ogni scritto, anche con i mezzi della tecnologia, impone un richiamo all’utilità della memoria e ad essa afferisce, solo che con le mail facciamo ricorso – e ad esso affidiamo parte del nostro “io” – ad una sorta di archivio nel web: da diversi anni assistiamo ad un continuo passaggio di dati e informazioni dall’interno (della mente e delle sue risorse fisiologiche) all’esterno, che noi stessi favoriamo, esportando in scatole o strumenti tecnologici ciò che ci riguarda, quasi fino a spogliarci della memoria come necessità e farla diventare un contenitore cui attingere di volta in volta.

 

Credo sia importante riflettere sul fatto che i contenitori esterni spesso diventano vasi comunicanti e i nostri dati personali finiscono per essere socializzati, perdendo quell’aura di segretezza o di riservatezza che ne consente il possesso esclusivo e il dominio. Basta ripensare agli attacchi hacker anche recenti, alcuni eclatanti  ai siti, agli account, ai dati personali per comprendere come la privacy soccomba spesso di fronte ad una trasparenza non sempre legittimata da adeguate protezioni ove non si faccia strumento intrusivo e arma distruttiva degli aspetti più sacri e inviolabili della nostra vita personale affettiva o professionale.

 

Ogni pc, tablet o smartphone diventa un contenitore vulnerabile agli attacchi esterni di malintenzionati.

 

Probabilmente ci stiamo avvicinando ad una trasparenza totale non criptabile, una sorta di archivio universale catalogabile che facilita accessi da fuori e purtroppo a volte in modo fraudolento, l’intreccio e la vulnerabilità dei dati. Tuttavia il fatto di non cancellare le mail significa spesso aggrapparci ad una memoria esterna consultabile, a fronte di una caducità dei ricordi metabolizzati dentro di noi. Questo ci costringe a viaggiare a ritroso nel tempo per recuperare ciò che potrebbe andare perduto.

 

Possiamo chiamarla – parafrasando Marcel Proust – la sindrome del viaggiatore alla ricerca del tempo perduto.

Come acutamente osserva Henry-Pierre Jeudy nel suo libro Fare memoria (Giunti) “il culto degli oggetti del passato risponde al bisogno di scongiurare la minaccia che incombe sull’uomo moderno: la perdita del senso della sua continuità. In tempi di consumo culturale di massa questo assioma vale anche per i pensieri e gli scritti del passato: un tempo si leggeva un libro per dedurne insegnamenti di vita, oggi più facilmente si tende a conservare il ricordo di sè, dall’oblio dell’incessante avvicendarsi di eventi a volte importanti altre insignificanti”. Trovo fondamentale, per ciascuno di noi e per chi deve professionalmente occuparsi del nostro equilibrio esistenziale, la riflessione argomentata da Eugenio Borgna nel suo I grandi pensieri vengono dal cuore.Educare all’ascolto (Raffaello Cortina) perché riconduce alla sfera dei sentimenti, alle emozioni, ai turbamenti, ai pensieri della nostra vita quotidiana la ricerca della nostra non duplicabile autenticità.

 

Viviamo da tempo l’epoca di un lento sgretolamento dell’identità individuale per vivere comportamenti massificati o per subire l’influenza (da cui il tanto osannato ma spesso condizionante ruolo degli influencer) di agenti esterni di convincimento e di persuasione occulta: tra le altre evidenze della pandemia ci sta anche questa deriva nichilista e di abbandono dell’io.

 

Memoria e ricordo costituiscono due puntelli per la sopravvivenza dell’identità: non tutto può esser metabolizzato, per questo le tecnologie dovrebbero aiutare ma non sostituire. Lo stesso Vittorino Andreoli ci invita ad usare più il cervello che abbiamo in testa di quello che teniamo in tasca o sul nostro scrittoio (L’uomo con il cervello in tasca, Solferino). E anche se l’oblio è il primo nemico della storia e cancella vite e vicende del passato, Rainer Maria Rilke ci ricorda il diritto di esercitarlo, a tutela della nostra integrità emotiva e della primazia del pensiero critico: “Importante è ricordare ma ancora più importante è saper dimenticare” (Opera omnia, Morcelliana).

 

È la capacità di selezione il vero discrimine del discernimento: vale per il pensiero critico, per la sfera prassica e per quella emotiva, soprattutto sul piano etico. Un compito che si fa dovere, come ci ricorda Ruben Razzante, per non residuare una umanità soccombente al dominio del nichilismo e dell’indifferenza. Usare con rispetto la tecnologia  per ciò che serve, senza esserne usati.