Perché l’immobilismo di Gualtieri può condurre alla sconfitta del centro sinistra nella lunga partita per il Campidoglio.

A sinistra prevale un sentimento di superficialità e presunzione, come se la “fraterna rivalità” di Calenda e la trasversalità di Michetti non costituissero un ostacolo sulla via del successo. I sondaggi parlano di un ballottaggio sul filo di pochi punti percentuali tra i contendenti dei due blocchi tradizionali. Nulla può essere dato per acquisito.

 

Cristian Coriolano

 

Mentre la destra condensa il suo messaggio di semplicità e aggressività attraverso la bonomia di un candidato senza pretese, salvo quella di portare in Campidoglio il vessillo della vittoria di tutti gli scontenti e i delusi della fallimentare gestione Raggi, ma anche di tutti i prevenuti e gli antagonisti della vecchia sinistra romana, non si comprende la razionalità di una contesa sulllo stesso terreno politico (non esteso all’infinito) da parte di Gualtieri e Calenda, con l’evidente rischio di un cedimento improvviso in qualche punto sensibile del fronte democratico e riformista.

 

Calenda porta le maggiori responsabilità. Fino a ieri dava la sensazione di condurre una bella ed onesta battaglia a tutto campo, anche nel presupposto che la critica verso il Pd potesse comportare, al di là del richiamo dei Dem alla centralità delle primarie, l’accettazione della sua candidatura a sindaco di Roma. Così non è stato: le primarie hanno avuto corso e Gualtieri, infine, è stato legittimato a guidare le operazioni per la (ri)conquista del Campidoglio. Di fronte alla tenuta del Pd, l’atteggiamento di “fraterna rivalità” del leader di Azione finisce per apparire velleitario o inconsulto, senza un connotato di opportuna generosità. Tant’è che la sua proposta tende a sovrapporsi a quella del Pd secondo la classica logica del “più uno”: se Gualtieri, accompagnato dalla Cirinnà, partecipa alla sfilata del Gay Pride, ecco che Calenda s’ingegna a far di più e a far di meglio, da par suo, annunciando la scelta di un capolista appartenente alla comunità Lgtb. In pratica, “sinistra” e “centro” vanno divisi non per conquistare consensi altrove, a danno in sostanza di Raggi e Michetti, ma per calamitare su di sé una quota degli stessi consensi sull’onda di un certo pensiero e costume radical-libertario.

 

Sta di fatto che questa strana competizione – in effetti sembra affermarsi come la “drôle de guerre” dei riformisti – inibisce il favore, almeno sotto l’aspetto di un primo e indispensabile coinvolgimento emotivo, di quella parte di elettorato che sente comunque la necessità di legare la laicità dello Stato al rispetto di alcune fondamentali concezioni, etiche e religiose, per altro ancora forti nella coscienza collettiva del Paese. Il discorso va oltre la cosiddetta “questione cattolica” dal momento che interessa e colpisce una larga fetta di opinione pubblica per la quale, evidentemente, la tolleranza non è in dubbio, come però non lo è, al tempo stesso, la misura o l’equilibrio nel tenere insieme le diverse sensibilità presenti nella vita sociale e politica della nazione. Qualcosa non quadra nel centro sinistra se ci si divide su tutto, anche sulla scelta di una candidato unitario, ma si pretende di vincere e prima ancora di convincere adottando la “lingua veicolare” dell’indifferentismo morale e quindi dell’insofferenza, più o meno mascherata, nei riguardi delle espressioni di fede, con quel che consegue in termini di orientamento o passione civile.

 

I sondaggi più attendibili ipotizzano che al ballottaggio la sfida sia tra Gualtieri e Michetti. Il primo sarebbe in vantaggio, ma di pochi punti. Non è detto che la campagna elettorale confermi l’attuale distribuzione di consensi; anzi, in uno scenario che rende altamente competitivo Michetti, pressoché sconosciuto fino a ieri agli occhi del grande pubblico, può accadere che i moderati indecisi, specialmente attratti dai temi della sicurezza e del decoro della città, subiscano lungo il percorso della campagna elettorale quel tanto di fascinazione nazional-popolare dell’ex militante della sezione dc di Monteverde, poi cresciuto all’ombra della presidenza regionale di Piero Marrazzo. La sponda assicurata dalla Matone, la vice assai prossima agli ambienti dell’Opus Dei, rende ancora più insidiosa la proposta di una destra che a Roma riesce ad aggregare un elettorato trasversale, desideroso di sentirsi rappresentato come cemento di una comunità organica, con la simbologia un po’ aristocratica e un po’ plebea della intramontabile romanità.

 

A Gualtieri, insomma, spetta prendersi cura di ciò che le circostanze impongono, ovvero l’avvio di un processo che muova dal presupposto di nuove idee e nuovi metodi da porre al servizio, come possibile, di un centro sinistra più aperto. Non è un impegno facile, visto il peso delle abitudini di una classe dirigente di lotta (al Comune) e di governo (in Regione), poco incline a rimettersi in discussione, a giocare una partita più ambiziosa. Finora s’è visto un lavorio affannoso per ripulire l’argenteria di famiglia, mentre le attese sono ben altre e ben altre anche le domande. Ancora latita la formulazione di un messaggio rivolto effettivamente al cuore di una Roma che ambisce ritrovare se stessa, la sua funzione ineludibile, in virtù soprattutto di una sana volontà di cooperazione, oltre pertanto gli steccati delle partigianerie. In fondo l’immobilismo è l’anticamera di una sconfitta che arbitrariamente s’immagina di poter disconoscere per pigrizia, se non per presunzione.