Pietrangelo Buttafuoco: “Non possiamo rinunciare alla potenza e alla meraviglia aurorale dell’Ellade”.

Giornalista e scrittore italiano, noto opinionista televisivo. vice direttore di Civiltà delle Macchine, collabora con il Fatto Quotidiano, firma la “Card” sul Quotidiano del Sud, ed è presidente del TSA, il Teatro Stabile d’Abruzzo”.

Professor Buttafuoco, ho l’impressione che si stia vivendo, da qualche decennio a questa parte una lunga stagione di ricerca di un equilibrio esistenziale ai dilemmi del nostro tempo: possiamo chiamarla normalità, serenità interiore, sostenibilità tra natura e cultura, tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ di noi. Eppure la parola prevalente degli ultimi anni è stata “crisi”: dei valori, delle istituzioni, della società, dell’economia, della scuola, della famiglia, dei comportamenti individuali e collettivi. Siamo un po’ tutti naufraghi alla deriva? Ciò che sembra mancare a questa umanità è una direzione di senso: chi siamo, dove vogliamo andare, che modelli di convivenza vogliamo costruire?

Guardi, Federico Nietzsche aveva annotato una considerazione che vale ancora oggi e cioè che ci si lamenta sempre della propria epoca, in verità non ce la siamo mai passata meglio. Facciamo nostra questa notazione. Io non credo che ci sia una novità esistenziale se non quella di aver costruito un modello sociale, di comunità che prescinde dai legami: adesso siamo più allentati nei legami tra noi, frammentati, siamo monadi singole e isolate. Questo alimenta il nostro disagio esistenziale. In realtà tutta la costruzione della modernità non comincia da ieri ma ha radici molto più lontane e paghiamo uno scotto che è  stato frutto di un evento storico ben preciso, il trauma più pesante per tutto il corso storico successivo e mi riferisco alla Rivoluzione Francese, il momento più abbietto, terribile, il periodo del terrore e di quello che ne è derivato. In funzione dell’idea che l’uomo possa costruire su stesso una tirannia che adesso è spaventosa nell’esito dell’ ideologicamente corretto, del moralismo, dell’etica che si sostituisce all’estetica, in un travestimento del sacro nelle forme più caricaturali e paradossali. 

Mi sembra che emerga oggi una logica riempitiva: essere ovunque, presenziare, conquistare, occupare spazi, possedere. Non è certo questa l’epoca dell’astensione e del distacco dalle cose, a meno che non si compia una scelta radicale di astrazione e di isolamento. Non finiremo allora per consumare il mondo, segnando confini più avanzati della nostra presenza fino a dare un senso ultimativo alla nostra esistenza terrena? Alla radice del problema c’è forse un conflitto tra natura e progresso?

Io penso che noi dobbiamo adoperarci ragionando su una distinzione necessaria: tra ciò che è ‘Mondo’ e ciò che è ‘Terra’. Ovviamente la differenza qual è: quella di aver avuto annidata la natura nel destino dell’esistenza di tutti noi, di avere con essa  un rapporto obbligato, sul  quale immaginiamo di aver costruito la nostra architettura. In realtà troppo spesso si consuma quello che io definisco un vero e proprio stupro. E’ una provocazione dove noi  facciamo un artificio di parodia nei confronti di quello che la natura, la terra  ci chiede rispetto alla costruzione del mondo. E’ uno stupro che abbiamo perpetrato elevando a dogma uno scientismo che nella sua versione occidentale ha anche determinato e imposto la cosiddetta ‘evoluzione socio-culturale’ dove la scienza – e ce ne accorgiamo soprattutto in questi giorni – ci impone di annullarci totalmente , ci impone di seguire determinati schemi di vita e di valori che sono totalmente impostati attraverso  un dettato fisico, biologico, una percezione sensoriale secondo la quale tutto deve essere impostato a priori. Mentre invece le sorprese della realtà sono tante, nel senso che ovviamente quello che è venuto facile smentire nelle azioni della vita degli uomini a questo punto  viene anche smentito nel percorso dell’esistenza. Si ricorda quando Francis Fukuiama aveva teorizzato la fine della storia? Affidandosi al dogma del totalitarismo liberale che imponeva una fine con la caduta  del comunismo in Unione Sovietica: e invece la storia  è andata avanti con tante sorprese, dal fondamentalismo, alla riorganizzazione dello schema di gioco nello scacchiere internazionale, al sorgere della Cina quale prima potenza e il tutto ancora una volta rimettendo in discussione questa unica ‘dialettica obbligata’ del rapporto tra terra e mondo e ne abbiamo avuto una prova in questi giorni in cui mentre il mondo è stato tenuto chiuso la terra è andata avanti.

La globalizzazione è stata il feticcio culturale del nostro tempo, l’epoca delle lusinghe: tutto facile, tutto subito, tutto a portata di mano.  Siamo – o vogliamo essere – davvero tutti ‘diversamente uguali’ cercando di  arrivare ad ogni costo ad essere diversi. E  la deriva inarrestabile è quella – nel bene o nel male – di una società cosmopolita privata di differenze identitarie? Oppure, nel flusso dei corsi e ricorsi storici, il ritorno dei  localismi farà prevalere in noi le radici e il senso di appartenenza?

Penso di si, non fosse altro perché il risultato più squillante, più sfacciato e anche più coerente della globalizzazione con i meccanismi inesorabili della macchina organizzativo-burocratico-capitalistica ha trovato il suo inveramento, la sua più concreta realizzazione nel suo esatto opposto, ovvero nella Pechino di oggi. Ma con grande paradosso e cioè che il primo Stato autoproclamatosi ateo, comunista e materialista ha accettato su di sé e ne ha fatto l’arma più forte e di egemonia la logica del capitalismo, capovolgendo la globalizzazione nel suo esatto contrario. Anche se su questo passaggio bisogna fare una considerazione, andare nel dettaglio chiave: il Xi JinPing di oggi è coerente con l’immagine autocratica, del potere, l’icona fondante dell’autorità con la Cina di mille anni fa. Se mettiamo accanto le due immagini, quelle tra l’attuale Presidente  della Repubblica Popolare cinese e un qualunque Imperatore cinese delle antiche dinastie, non cogliamo grandi differenze. Ad esempio in questi giorni ai ragazzini delle scuole cinesi è stato dato un copricapo per il distanziamento sociale che è ripreso esattamente dai copricapi dei militari cinesi di mille anni fa. Le rispondo allora su come possano riemergere le radici.  Vede: la radice, l’identità, la forza primigenia che segna ciascuno di noi inevitabilmente esce, non esisterà mai una livella tale da poter cancellare il tratto della caratteristica fondante di una storia e di una identità,  esattamente come il fumo non può essere contenuto dentro una scatola: uno spiraglio da dove riemergere lo trova sempre.

Effettivamente c’è stato un progresso tecnico-scientifico esponenzialmente crescente:   si è realizzato un cambiamento radicale del mondo più negli ultimi cinquant’anni che  nei cinque secoli precedenti….Fino a che punto l’invadenza della tecnologica – e mettiamoci pure la deriva in atto di digitalizzazione dei saperi e delle comunicazioni –potranno espandersi senza mettere in crisi il modello antropologico consegnatoci dalla tradizione?

Anche su questo vedo un paradosso: il dispiegarsi della tecnica è stata l’arma più efficace per la stessa tradizione. Non c’è mai stata una novità, una innovazione tecnologica che non abbia veicolato il lascito culturale e sapienziale. Se io adesso ho la possibilità di attraversare i  dialoghi di Confucio e di poter confrontare gli ideogrammi con la loro traduzione posso ben farlo con agio, studio, diletto e passatempo anche in virtù della innovazione tecnologica che mi consente di avere il manufatto ma anche la sua versione digitale e perfino ascoltarne a viva voce la giusta pronuncia e l’inflessione . Ogni volta che c’è uno scatto tecnologico il lascito culturale di identità e tradizione si fa presente. La rivoluzione iraniana potè avere luogo grazie alle musicassette: quando l’ayatollah Khomeini incideva i suoi sermoni da Parigi – la cosiddetta “diceria della città” – essi ebbero una capacità virale proprio in virtù di questo scatto tecnologico.

Non è vero allora che la tecnica comprime e annulla la tradizione ma – se mai – che invece può essere messa al suo servizio? Se Lei ricorda il saggio di Walter Benjamin del 1936 “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” apprezzerà il fatto che la fruizione estetica di un capolavoro come la Gioconda è stata resa accessibile a tutti proprio attraverso la sua diffusione attraverso le tecnologie.

Certo, ha ragione e faccio un altro esempio; non abbiamo avuto la possibilità  di inebriarci della perfetta rappresentazione fonetica dei capolavori di Eschilo, di Euripide, Holderlin, di Dante Alighieri quando ad esempio Carmelo Bene si adoperò con le sue applicazioni vocali e il lavorio dei microfoni, per restituire quello che altrimenti i nostri progenitori potevano ascoltare solo stando seduti tra le pietre degli anfiteatri.

Trovo paradossale – non so se Lei condivide – che l’epoca della progettazione, dell’innovazione e del cambiamento sia anche la stagione dell’effimero e del breve. Ci manca forse – paradossalmente – la capacità di gestire il presente? Com’è cambiata la nostra percezione del futuro? Pensa che la politica sia in grado di progettare modelli di convivenza sociale anche a breve o medio termine?

L’unico progetto di convivenza sociale che la politica sta sperimentando adesso è fondamentalmente concentrato su due elementi, per controllarli: la progettazione della vita privata di tutti noi e la capacità critica di tutti noi. Se osserviamo attentamente che la pandemia è stato il terreno per sperimentare questo progetto ci avvieremo ad una sola verità che sarà controllata come mai nessuna inquisizione ha saputo fare. Ce ne accorgiamo perché adesso tutta l’eterodossia – cioè l’indagine fuori dai canoni ortodossi e quindi le ricerche storiche, il revisionismo, la scienza degli esperimenti e persino l’immaginazione – quando è fuori dal pensiero unico viene marchiata come ‘fake news’. Che cosa sono in fondo le fake news: sono qualcosa che viene stigmatizzato se è fuori dal pensiero ortodosso. Ricordo l’esempio di Galileo Galilei, che fu giudicato impostore. Ora io sono convinto che nel nome della salute e della sicurezza si arriverà poi anche a controllare la vita di tutti. Una esperienza che abbiamo vissuto negli anni feroci del giustizialismo ad esempio attraverso gli abusi delle intercettazioni telefoniche.  Il vero terrore nella costruzione del totalitarismo morbido verso cui ci avviamo è quello di vedere Prometeo già bello e incatenato. L’andazzo è chiaro e ce ne stiamo accorgendo in epoca di pandemia,  poiché il lockdown è considerato il bene mentre invece la libertà è il male.

Mi pare che una delle urgenze del nostro tempo consista nella necessità di riappropriarci dei tempi e dei luoghi utili per esercitare il nobile esercizio della riflessione. Le omologazioni culturali, le ansie di presenzialismo, il dovere dell’autorealizzazione ad ogni costo e quel voler sapere tutto, dire su tutto, ‘esserci’ mi pare che ci portino altrove. In questo mondo di chiasso e di parole, di rancore e di invidie, così cattivo e prevaricante dove e quando possiamo recuperare una dimensione di intimità spirituale che ci riconcili con gli altri e con la vita? Sarà forse la religione, la fede come sosteneva il sociologo Sabino Acquaviva, un’ancora di salvezza interiore ma anche come fenomeno ecumenico di anti- globalizzazione? 

Vorrei ribaltare il concetto di Acquaviva attraverso la rilettura dell’etimo latino del termine religione: la “religio” è ciò che lega e tiene insieme le cose. Nei secoli la religione ha sempre avuto questo significato di saldo legame che tiene unite la comunità e i destini dei popoli, tanto è vero che i nostri progenitori avevano ben chiaro questo concetto di legame: tenere insieme la domus, la polis, l’orizzonte, l’agorà e quindi,  in quello che è stato il nostro percorso storico greco-romano nell’ambito del sacro, il senso della religione  rimanda ad una idea plurale e universale che tiene uniti i popoli e libera i destini verso un cammino di consapevolezza. Quindi per me religione è un’idea universale e plurale che dalla notte dei tempi fino ad oggi ci accompagna e bussa alla nostra coscienza guidandoci verso questo percorso di consapevolezza di ciò che siamo. Quando attraverso i Fori Romani mi fermo ad osservare il fuoco di Nesta e vedo sempre che è spento: questo mi ha fatto riflettere poiché in altre parti del mondo, specialmente nel centro Asia,  da me visitate ho osservato che quel fuoco è invece acceso, ed è lo stesso fuoco. Capisco allora che è l’uomo a rendere sacro  il vincolo con il mondo quando si fa “Terra” per ritornare al concetto di prima.

Ci si imbatte oggi, nella vita di ogni giorno, in un quesito culturale quanto mai vivo e attuale: quali sono le difficoltà intrinseche nel concetto e nella pratica della multiculturalità? Cioè a dire: fino a che punto è possibile realizzare un dialogo tra culture e religioni senza che ne vengano compromesse le reciproche identità? Dobbiamo temere un futuro di relativismo etico, una sorta di ‘notte in cui tutte le vacche sono nere’, per dirla con la filosofia? Fino a che punto si può parlare di dialogo interculturale piuttosto che di dialogo interreligioso?

Non credo al concetto di multiculturalità come qualcosa da mettere insieme , tipo mogli-e-buoi-dei-paesi-tuoi. Credo sia solo una illusione. Guardi ci sono tre libri fondamentali che tracciano il percorso della nostra comunità e sono per esempio la prima decade di Tito Livio, l’Iliade e il Bagvad-Gita.

L’intercultura è dunque solo retorica o un progetto sociale concretamente sostenibile? 

No, non si possono fare progetti su queste cose: c’è sempre un equilibrio di energie e di forze,  l’intercultura come progetto non è una idea sostenibile. Ogni destino ha un codice che manda poi alla stessa linfa, sono raggi di una stessa luce, ognuno va a riferirsi a qualcosa in cui si riconosce.  Noi non possiamo rinunciare alla potenza e alla meraviglia aurorale dell’Ellade, tutta la cultura pervenuta a noi aveva un marchio ed era Atene.  Ci sono dei percorsi che si sviluppano nella storia e che non corrispondono alla riunione di un consiglio di amministrazione.

Come valuta il sistema scolastico italiano, i suoi standard formativi, il collegamento con il mercato del lavoro? E sul piano strettamente culturale ritiene che la nostra tradizione umanistica possa essere messa in crisi dall’introduzione di una didattica che si avvalga delle nuove tecnologie e della digitalizzazione? La lettura e il libro cartaceo, la poesia, l’arte, la musica saranno metodi e materie destinate ad una progressiva marginalizzazione, come è accaduto ad esempio per lo studio della storia e della geografia?

E’ una situazione di assoluto sconforto: soprattutto quella della scuola italiana. Se lei prende 5 righe a caso di un qualunque scritto di due Ministri della Pubblica Istruzione che hanno forgiato la scuola italiana  come Michele Amari (che fu il primo Ministro della P.I. dell’Italia unita) e Giovanni Gentile e prende 5 righe di un hashtag  datata 29 aprile u.s. in cui il Ministro dell’Istruzione succeduta a Michele Amari e Giovanni Gentile si esprime così: “Il giorno della data dell’esame di maturità sarà il 17 giugno e l’esame orale partirà da un argomento che non sarà una tesina ma un argomento da cui partiranno scelto con i loro ‘prof ‘ .Si parte un argomento di indirizzo” capirà il mio commento. Ho detto tutto.

Il Suo stile interlocutorio, la Sua pacatezza nell’esprimersi, la Sua attitudine alla riflessione si riflettono sul suo stile narrativo di scrittore di successo. Che cosa significa per Lei “scrivere”?  Alda Merini mi aveva detto “poeti si nasce”. Si nasce anche scrittori?

Non saprei rispondere però le posso dire che in assoluta sincerità non mi considero scrittore e tantomeno intellettuale ma considerata la mia frequentazione del palcoscenico, io mi trovo a mio agio nei legni del teatro, in realtà io mi considero “artista”. Non rivendico il diritto appunto di affrontare la parola e la scrittura e la loro messa in opera attraverso la scena, quanto la fatica dell’arte. “Non passare le notti insonni a scrivere lambiccandosi di astruserie per poi procurare il sonno agli altri”.