Ai tempi della famigerata Prima Repubblica quando le alleanze non reggevano più si faceva ricorso ai “governi ponte”, ai “governi balneari”, “di transizione” e a quelli per “il disbrigo degli affari correnti”. 

Correvano i tempi degli equilibri più avanzati, dei compromessi storici, delle convergenze parallele e della politica dei due forni: espressione coniata da Andreotti per spiegare la necessità di garantirsi il pane stando al centro, servendosi della farina ora a destra ora a sinistra. Metafora completata da Fanfani con un’altra mappa concettuale significativa: a chi gli chiedeva quale vino si dovesse mescere al tavolo di Palazzo Chigi rispondeva sornione “dipende dalla qualità del vino e degli invitati”.

In genere i politici erano riciclabili nei vari rimpasti, uno passava dall’Agricoltura alla Difesa, dalla Pubblica Istruzione agli Esteri: provenendo in genere dagli ambienti universitari, sapevano adattarsi con disinvoltura al cambiamento. A volte si occupavano come Ministri di tematiche che insegnavano a livello accademico. Nessuno si ispirava apertamente a Max Weber, infatti non si parlava di beruf o competenza, ma la scaltrezza delle argomentazioni era affinata nei congressi di partito, qualche calibro da 90 emergeva lo stesso per attitudine e vocazione, si formavano parvenze di idee e di pensiero.

La società non era liquida, complessa, trasparente e neppure mucillaginosa come la descrive oggi il mio “maestro” Giuseppe De Rita: i conflitti erano prevalentemente ideologici e le appartenenze alla base molto radicate, nessun cattolico o comunista o liberale si sarebbe mai sognato di riciclarsi cadendo sulla via di Damasco (e neppure su quella di Roma).

Il sistema elettorale era rigorosamente proporzionale e il partito di centro sceglieva quei tre o quattro satelliti che gli consentivano una continuità camuffata da discontinuità.

In genere – mi riferisco ai capipopolo – era gente che sapeva il fatto suo anche se più portata a gestire l’esistente che a programmare il futuro: ne è prova il debito pubblico spaventoso ereditato che tramanderemo – considerato il nuovo poi sopravvenuto e quello che avanza, “omnia saecula saeculorum”.

Infatti l’insegnamento prevalente messo in circolazione era quello dei diritti da conquistare e non quello dei doveri da imparare: di buoni esempi non ne abbiamo avuti molti, c’è stato un crescendo di rivendicazioni e l’etica prevalente è stata quella di far quattrini in qualunque modo, di superarsi a vicenda, mentre veniva meno l’onore della parola data e quanto alla gratitudine, anche in famiglia, alla fine ci è rimasta solo quella del giorno prima.

Ora che abbiamo cambiato secolo, millennio e classe politica mentre le ideologie sono state travolte insieme agli ideali, molti problemi sono rimasti, altri solo cambiati e ne sono arrivati dei nuovi in quantità incommensurabile.

Ci mancava pure il coronavirus con l’ecatombe mondiale di contagi e di vittime e una crisi economica spaventosa che si sta palesando in un quadro mondiale stravolto dal dualismo USA-Cina. 

Per quattro giorni e quattro notti – dura fatica- i 27 capi di Governo della U.E si sono riuniti a Bruxelles per concertare strategie di sopravvivenza, gestione del disastro e rilancio della ricostruzione.

All’appuntamento ci siamo presentati con un Presidente avvocato degli italiani, talmente bravo da aver guidato in successione gli ultimi due dei 5 o 6 governi non eletti dal popolo.

Il risultato che ha portato a casa è stato sorprendente e superiore alle aspettative: 209 miliardi di cui 127 a prestito e 82 a fondo perduto: la nostra ripartenza avrà dimensioni bibliche, se sarà realizzata.

Lo sfacelo nazionale è enorme, il lavoro in caduta libera, le imprese azzannate al collo dal fisco e dal lockdown, le scuole chiuse sei mesi e con riapertura da definire, l’ascensore sociale fermo, la povertà crescente.

A Bruxelles hanno vinto un po’ tutti: l’asse franco tedesco, i paesi frugali- rigorosi, quelli mediterranei con la bava alla bocca e la Merkel come ago della bilancia, con la supervisione istituzionale di Ursula von der Leyen  e di Charles Michel. L’Europa intera ha certo capito che questa era l’ultima chance per evitare di rimanere stritolati dal caterpillar della pandemia e dalla tenaglia commerciale USA-Cina.

Per quanto ci riguarda qualcuno ha precisato che degli 82 miliardi senza interessi ben 20 sono stati già spesi nel periodo dell’emergenza: cominciamo a fare i debiti distinguo, ne restano dunque 62. 

Gli altri 127 da restituire incrementano di un 7% il debito pubblico che navigherà presto oltre la soglia psicologica senza ritorno dei 2500 miliardi.

Siamo tuttavia contenti, non c’è dubbio che il risultato darà ossigeno ma bombole e boccagli andranno ben posizionati. Ci sono troppe distonie di sistema che ci rendono diversi dagli altri.

La diffidenza dei Paesi “frugali” è dovuta alla nostra fama che ci perseguita nelle assisi internazionali: siamo il Paese del reddito di cittadinanza, dei navigator che procurano un 2% di lavoro ai potenziali occupabili, il Paese dei bonus ‘una tantum’ che diventano a poco a poco ‘una semper’. 

Dagli 80 euro di Renzi ai bonus bebè, docenti, 18enni, vacanze, monopattini e biciclette.

Ci viene chiesta serietà e sobrietà e la perorazione non mi sembra esosa.

Basta una volta per tutte con la politica dei bonus, delle mance e dell’assistenzialismo a fondo perduto.

Serve, urge, una progettualità politica di lunga deriva, lungimirante e che favorisca la crescita, non il parassitismo. Servono investimenti in istruzione, green, energie alternative, turismo, settore manifatturiero.

Ora si dà il caso che la lunga stagione del lockdown sia stata contrassegnata da una serie di tavoli di concertazione composti da esperti, per ogni ambito del vivere comunitario, dalla sanità alla scuola, alle regole dei comportamenti sociali : come se la politica fosse stata incapace di gestire in prima persona queste operazioni, pur disponendo di un apparato burocratico corposo.

E’ veramente singolare – e in ciò sta la vera differenza con il passato – questa ammissione implicita di incompetenza della politica: qualcuno già ventila la costituzione di una task-force per gestire il malloppo.

Come se Ministri, Parlamento e alta burocrazia dovessero essere esonerati a priori dal compito della gestione diretta e responsabile dei finanziamenti che riceveremo. 

Delegando esperti nominati con il manuale Cencelli, teste d’uovo dietro le quinte dei partiti.

Sarebbe una debacle inaccettabile anche per i cittadini che sanno di mantenere una classe politica costosa e improduttiva. Arriveremo a sostituire il Governo con una cabina di regia esterna composta da tecnici?

Altrove non accade ed è grave che non ne parli nessuno: come se gestire a livello politico questi finanziamenti europei  fosse una sorta di fastidiosa e indebita intromissione e non un dovere, un preciso e non delegabile dovere ‘morale’ da assumere.