Prima Repubblica: più luci che ombre, secondo  Passigli. Il suo ultimo libro, letto per noi da Papini, ne spiega i motivi.

 

Il biennio (1992-1993) è stato soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione. In tutto l’Occidente si è compiuta una profonda trasformazione, la fine della politica dei grandi partiti, ma in Italia dove la democrazia è più fragile (come sapeva bene Moro), i processi sono stati più rapidi.

 

Gabriele Papini

 

La Prima Repubblica non ha mai goduto, nella pubblicistica come in larga parte della storiografia, di buona fama. Anzi, possiamo dire che difficilmente un periodo della nostra storia recente – fatta forse eccezione per il ventennio del regime fascista – è stato giudicato in maniera così lontana dai suoi effettivi meriti. Molti osservatori sono portati a far risalire la conclusione traumatica della prima Repubblica a trent’anni fa. Quel famigerato biennio (1992-1993) in realtà è stato soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione e degli intrighi, l’illusione secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica in disfacimento. L’illusione che la Seconda Repubblica sarebbe stata portatrice sana di una “nuova stagione”.

 

A costruire questa narrazione, in parte mitologica, furono soprattutto i mezzi di informazione. Oggi – trent’anni dopo – abbiamo la certezza che il ’92-’93 è stato un gioco “a somma zero” e però al contempo avvertiamo la necessità di una riflessione storica più ponderata sulla vicenda italiana del secondo Dopoguerra. Stefano Passigli, già senatore della Repubblica nelle file dell’Ulivo e a lungo docente di scienze politiche all’Università di Firenze, nel suo ultimo saggio punta fin dal titolo (Elogio della prima Repubblica, edzioni La Nave di Teseo) a una riabilitazione storica dell’esperienza della “Repubblica dei partiti” (secondo la definizione di Pietro Scoppola) a suo giudizio “momento straordinario di buon governo senza eguali nella nostra storia”.

 

Nella puntuale ricostruzione operata dall’autore, in un Paese “distrutto e comunque poverissimo”, una classe politica di grande spessore seppe promuovere non solo la ripresa delle fondamentali infrastrutture e il rilancio delle attività produttive, ma anche favorire una maggiore inclusione sociale con alcune lungimiranti misure di policy (come si dice oggi) che hanno permesso a un sempre maggior numero di cittadini di accedere all’istruzione, alla previdenza e alla assistenza sanitaria pubblica. In una parola, al Welfare State tipico di un Paese moderno.

 

Il compito che la classe politica si era trovata ad affrontare alla fine della guerra, come sappiamo, era immane. Il Paese esce sconvolto nella sua coesione sociale dal conflitto bellico e al contempo profondamente diviso dalla “questione istituzionale”. È anche grazie alla saggezza e all’equilibrio delle classi dirigenti di allora (lo “spirito dell’Assemblea Costituente” secondo Passigli) se il Paese seppe darsi una forma di governo (la democrazia parlamentare) e una legge elettorale (il sistema proporzionale) che assicuravano – al contempo – competenza e rappresentatività.

 

A favorire la stabilizzazione del Paese contribuirono non poco anche gli aiuti internazionali dell’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) che salvarono l’Italia dalle prime necessità postbelliche. L’Unrra dispensò infatti non solo aiuti alimentari e materie prime, ma finanziò anche programmi di ricostruzione di case e di sostegno alla maternità e all’infanzia. Come ricorda l’autore, “su 3.653 milioni di dollari di contributi totali dell’ERP (European Recovery Program) l’Italia ne ricevette 429 milioni”. Ciò si spiega con l’evidente sforzo dell’amministrazione Truman di sostenere un “Paese cerniera” del blocco dell’Europa occidentale nei confronti dell’espansionismo sovietico. Analogie e parallelismi con il Pnrr non sono possibili perché – come si legge nell’introduzione – il post pandemia non ha termini di paragone con il secondo dopoguerra.

 

Dopo un periodo di sostanziale benessere negli anni del Boom economico (culminato nell’Oscar delle valute per la lira nel 1960) la democrazia italiana inizia lentamente ad avvitarsi su sé stessa. Questo processo culmina nel 1978, anno del rapimento e uccisione di Aldo Moro. Il 1978 è anche l’anno di mezzo tra il ’68 e l’89, tra la rivoluzione dei giovani in Occidente, la contestazione e la caduta del muro di Berlino. È anche l’anno che fa da spartiacque della generazione che cresce tra il prima e il dopo: il tutto della politica (“gli ideali e il sangue” secondo Passigli) e il suo nulla. La trasformazione della politica, da orizzonte di senso a puro narcisismo e nichilismo. Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro ne costituisce lo spartiacque fondamentale. Lui che pure aveva indicato una strada difficile, tortuosa, per uscire dalla crisi della democrazia che avvertiva come un dramma.

 

In tutto l’Occidente si è compiuta questa trasformazione, la fine della politica dei grandi partiti, ma in Italia dove la democrazia è più fragile (come sapeva bene Moro), i processi sono stati più rapidi. La politica è diventata sempre di più apparenza (“ha smesso di essere un orizzonte di senso collettivo in cui identificarsi” secondo Passigli), non ha coltivato più la speranza, ma la paura dei cittadini e la loro rabbia, generando frustrazione negli elettori, perché continua a promettere quello che non riesce più a dare.

 

Ecco perché, venendo ai giorni nostri, partiti nuovi e leader giovani riescono a prendere milioni di voti, ma non avendo neppure un “atomo di verità” (come diceva Moro) sono in ogni caso condannati alla cultura della sconfitta.