Il mondo del lavoro ha le gambe corte, ormai funziona bene soltanto nel breve periodo (e per brevi periodi). Questa mutazione quasi fisica del lavoro non è avvenuta con un taglio improvviso, ma è il risultato di tanti fattori contingenti: la rottura delle “cinghie di trasmissione” del sapere tra le generazioni, la difficoltà del mondo della scuola di compensare tale interruzione, un crescente “fastidio culturale” (su cui torneremo più avanti) per tutto ciò che non sia hic et nunc, la sollecitudine di chi opera per farci vivere in un eterno presente. In altre parole, il grande albero della società civile è stato tagliato pazientemente finché è caduto, lasciando le radici inutilmente piantate sul terreno e il resto abbandonato all’indifferenza e alla manipolazione. Come sappiamo, durante l’ultimo anno segnato dalla pandemia più di 900 mila italiani hanno perso il posto di lavoro e ciò rappresenta un indebolimento non solo della conoscenza ma anche della coscienza di un Paese.

Sulla crisi del lavoro oggi pesano il diffondersi delle tecnologie informatiche, la comunicazione della Rete, la velocizzazione dei messaggi, il conformismo dei linguaggi. L’estrazione di masse enormi di dati degli individui e la loro trasformazione in profitti per gli over the top rendono sempre meno riconoscibili i confini tra soggettività individuale e condizione sociale: da una parte la comunicazione in Rete, lungi dall’essere universalistica, è atomizzata al massimo e sfocia nella segmentazione di utenti che cercano il contatto con persone simili a loro, così da rafforzarsi nell’impressione che il loro orientamento sia sempre quello giusto. Dall’altra parte, le soggettività nascoste dietro milioni di Big Data vengono rielaborate e vendute con finalità del tutto diverse da ciò che ha spinto l’agire di quegli stessi individui. Tutto ciò riguarda anche il mondo del lavoro, in particolare la dequalificazione delle mansioni, la delegittimazione dei corpi intermedi, l’estensione della “logica prestazionale” in tempi di smart working. Come mai questi processi sono stati così poco contrastati sul piano teorico e culturale? Perché ci si è attardati in una sorta di esaltazione della “fine del lavoro” proprio quando, nel mondo globale, la forza lavoro aumentava? Perché siamo stati così frettolosi nell’archiviare il Novecento come “secolo del lavoro”? 

In alcuni casi, il “fastidio culturale” verso l’etica del lavoro è andato di pari passo al “fastidio culturale” verso l’umanesimo, il che è vero per coloro i quali hanno sostenuto l’idea della liberalizzazione dal lavoro, contrapposta a quella della liberalizzazione del lavoro. 

Così si è lasciato a Papa Francesco (e alla sua ultima Enciclica Fratelli tutti: sulla fraternità e l’amicizia sociale) il compito di mostrare una forte sensibilità al binomio lavoro/persona, sottolineando come il diritto al lavoro è prioritario e il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma, in qualche modo, anche l’essere del lavoratore; chiedendo di non ridurre la persona umana a puro elemento dei fenomeni economici ma anzi riaffermando la natura di relazione tra soggetti del rapporto lavorativo, “soggetti titolari di una dignità e non solo di un prezzo”. Il Papa ci invita a uscire da un orizzonte esclusivamente produttivistico, così come a “riproporre la funzione sociale della proprietà” per poter praticare l’amicizia sociale. 

Non a caso, nella Costituzione italiana, la centralità del lavoro (da un punto di vista etico ed economico) deve garantire il rispetto della “dignità umana” e il “pieno sviluppo della persona”. Solo così si spiega il taglio fortemente “lavoristico” dell’articolo 1 della Carta Costituzionale che non è un episodio incidentale ma un paradigma voluto dai Padri costituenti. Naturalmente non si può eludere una riflessione sui danni che provocano, nella nostra società, sia l’assenza di lavoro, sia la sua presenza associata a ritmi ininterrotti, che confondono la distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero; sia la sua disponibilità in condizioni di grande precarietà e frammentazione, accentuate dalla digitalizzazione e dallo sviluppo dell’economia delle piattaforme, spesso prive di tutele legali. Con le nuove tecnologie che consentono una “cognitivizzazione” del mondo, il lavoro si arricchisce di elementi culturali e creativi ma la connessione perenne in remoto non significa una maggiore libertà, anzi può generare una perdita di socialità da parte degli stessi individui/lavoratori.

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) appena varato dal Governo italiano, si parla spesso frettolosamente di lavoro. Tale tema, in realtà, dovrebbe permeare tutte le principali voci di investimento, dalla transizione ecologica alle nuove tecnologie, al rilancio dell’economia.

Durante il primo lockdown, tra i tanti messaggi che le persone si scambiavano, spesso tra l’ironico e il consolatorio, ne è circolato uno in particolare che diceva così: “avete dato un milione di euro al mese ai calciatori e 1200 euro al mese a medici e ricercatori: ora fatevi curare da Cristiano Ronaldo”. Ecco, non dobbiamo dimenticarci dei riconoscimenti tributati nella prima fase della pandemia a medici, infermieri, operatori sanitari, addetti ai servizi fondamentali, alla cura della persona e alla sopravvivenza comune. Dobbiamo invece trarne le conseguenze in termini di attribuzione di dignità e di valore – in ogni senso – al lavoro di tutti. Buon primo maggio.