PROF. BRUNO, “ROUSSEAU SBAGLIAVA: L’UOMO NASCE CATTIVO, IL MALE FA NOTIZIA PERCHÉ CE LO RICORDA” – INTERVISTA POSTUMA

È mancato nei giorni scorsi il Prof. Francesco Bruno, noto criminologo. L’intervista, realizzata alcuni anni fa, ci riconsegna il ricordo di una persona che faceva scuola nei casi più complicati di cronaca nera. Le sue riflessioni conservano il valore dell’attualità.

Francesco Provinciali

Prof. Bruno, sulla base della sua lunga esperienza clinica e di conoscenza dei casi ci spiega dove comincia il limite di confine tra normalità e patologia nei comportamenti umani?

La parola patologia riguarda il senso della malattia. Ogni volta che c’è una condizione fisica, un processo che non rispecchia la funzionalità del codice genetico dell’uomo, la sua normalità, si verifica questa variazione peggiorativa che chiamiamo ‘malattia’ o ‘patologia’.

Si tratta quindi della variazione di una regola biologica. Nel caso di una patologia mentale il discorso è diverso perché non c’è solo l’aspetto biologico delle malattie fisiche, con un loro decorso evidente ma – non essendo il nostro cervello soltanto un organo anatomico-funzionale ma anche la sede di produzione del pensiero, ciò che noi chiamiamo ‘mente’, che altro non è che il contenuto del cervello, e precisamente ciò che noi sviluppiamo attraverso le relazioni con il mondo, gli apprendimenti, le idee e le esperienze – non è detto che i disturbi che si manifestano riguardino strettamente l’organo, quanto invece siano dovuti a processi di distorsione di tipo psicologico, che concernono dunque la sfera della nostra personalità.

C’è poi un altro aspetto: la vita dell’uomo si svolge all’interno di una società ed ha che fare con le norme che regolano lo svolgimento della vita sociale.

Succede allora che ‘il potere’ – cioè la fonte di produzione e di rispetto delle norme – considera spesso patologico ciò che non rientra nei codici sociali stabiliti.

Il potere sceglie tra norma e norma per cui viene considerato un criminale chi contraddice un certo tipo di norme, matto colui che ne contravviene altre. Ci sono poi coloro che non contraddicono alcun tipo di regole sociali ma che sono considerati pericolosi dal potere dominante, come avviene nei paesi dittatoriali.

Discostarsi da una norma, che sia biologica, psicologica o sociale pone l’individuo tra coloro che hanno dei disturbi mentali: per patologie mentali o disturbi comportamentali oppure ancora per differenziazione rispetto al potere dominante.

Cosa ne pensa del fatto che siamo circondati dalle brutte notizie? Perché curiosità e mondo dell’informazione sono più attratti dal male che dal bene?

Vede, io mi occupo di fatti criminali e di negatività da una vita. Inizialmente credevo che gli uomini nascessero buoni e che poi la società li facesse diventare cattivi, come diceva Rousseau. Dopo trent’anni ho cambiato idea e adesso ho convincimenti opposti. L’uomo nasce ‘cattivo’, senza morale: il suo unico scopo vitale è di crescere, diventare adulto.

È poi la socializzazione che lo rende educato, che gli dà regole, le norme e modelli di comportamento. Secondo me il male fa notizia – e prevale quindi la cattiva notizia – perché ci ricorda questa prevalente verità.

Quando vedo la gente che va all’assalto in Commissariato per vedere lo stupratore e magari linciarlo, ebbene in quel momento vuole giustizia ma in realtà si comporta peggio di lui: “se noi linciamo quello rappresentiamo il bene”, senza renderci conto che in quell’atto siamo peggiori e più violenti di lui.

Credo che il male agisca così.

C’è molta solitudine nei rapporti tra le persone. La TV ed internet possono essere una nicchia di appagamento e di comunicazione oppure sono prevalentemente solo marchingegni che generano pulsioni perverse e che forniscono modelli comportamentali sbagliati, specie ai giovani?

Credo che siano utili, a volte delle vere panacee nei confronti della solitudine esistenziale.

Purtroppo sono persino ‘troppo utili’ perché finiscono per sostituire sia la famiglia che la scuola, naturalmente con modalità completamente diverse di apprendimento.

Stiamo andando verso un dominio di questi mezzi. La cosa che mi preoccupa di più di questo processo è la perdita della centralità dell’uomo che in questo periodo si estrinseca soprattutto attraverso l’uso indiscriminato dei telefonini, il terzo grande fattore tecnologico di condizionamento radicale dei comportamenti umani, insieme a internet e alla TV.

Siamo in una fase di transizione sempre più rapida e senza identità. Scuola e famiglia hanno perduto il loro primato formativo e non possono competere con questi agenti di cambiamento dei comportamenti umani che – come ho detto – snaturano la centralità della persona e la sua capacità decisionale. Noi finiamo non per fare ciò che vorremmo ma piuttosto quello che le tecnologie ci fanno fare.

Quanto pesano le informazioni, specie quelle relative a fatti di cronaca nera, sul nostro equilibrio interiore, come modificano i nostri comportamenti e quanto incidono sui nostri stili di vita? E’ solo cronaca o la sua deformazione? Quanto conta questo tambureggiante assalto quotidiano nella deriva dei comportamenti sociali prevalenti (rancore, timore, ansie, paure, bisogno di sicurezza)? La gente non ‘regge’ più le relazioni, gira con le pastigliette anti-stress…

Vede, io vengo dalla società degli anni cinquanta, quella dell’immediato dopoguerra.

Quella era forse una società più selvaggia e violenta della nostra, però nutriva grandi speranze, idealità, progetti e utopie.

Al nostro tempo manca – le abbiamo perdute – l’utopia, le ideologie, la speranza.

Che cosa succede allora? Che i giornali vendono perché tambureggiano sulle brutte notizie e non c’è più – nell’informazione e nella società – uno scopo ‘didascalico’, non c’è più né il bisogno, né la volontà, né la possibilità di sostituire i vecchi valori con nuovi valori.

Parlare oggi di patria e famiglia diventa quasi ridicolo, i valori della libertà dell’uguaglianza non contano più, non ci servono per vivere in una società dove il principio di essere uguali di fronte alla legge non vale perché c’è una miriade di leggi per ogni situazione.

Non c’è più compensazione – nei comportamenti – da un richiamo forte ai valori: prendiamo ad esempio il lavoro – che ai miei tempi trovavo come ‘valore forte’  a cominciare dai libri della scuola elementare, come principio di nobilitazione –  e che adesso è sostituito dal successo.

E il successo è tanto più forte quanto più si elude il lavoro, anzi è il suo contrario: ha successo chi riesce a non lavorare, il lavoro è una pena non un fatto positivo.

Non vedo valori condivisi dalla massa.

Non sappiamo dove vorremmo andare, neanche se avessimo la bacchetta magica.

Dagli episodi di bullismo alla cronaca nera: come si spiega un coinvolgimento sempre maggiore dei giovani, già a partire dall’adolescenza, in molta parte dei fatti criminali degli ultimi anni? Da cosa deriva questa forma di protagonismo negativo?

Sul comportamento negativo dei giovani io ho delle idee un po’ diverse da quelle ricorrenti.

C’è una sostanziale incapacità da parte degli adulti di guidare la società, mancano i ‘riti di iniziazione’ per i giovani, che vanno guidati. Chi è più maturo ha la responsabilità di evitare che i minori crescano in una sorta di anarchia valoriale, che diventino distruttivi anziché costruttivi.

I giovani vanno aiutati, protetti e dissuasi dalla negatività.

Ad esempio io sono assolutamente d’accordo sul sette in condotta e sulla bocciatura come deterrente e come valutazione che precede quella delle materie. Ci sono regole di comportamento che vanno curate prima degli apprendimenti in senso stretto.

Noi abbiamo ’lasciato fare’ per lungo tempo e i giovani sono stati abbandonati a se stessi o utilizzati per cose abbiette, poi messi in una sorta di nulla cosmico.

Il bullismo alla fin fine è sempre esistito…

Quindi agli adulti è mancata la capacità di essere di esempio…?

È andata assolutamente così. Dal bullismo verso i compagni si passa a quello verso gli adulti e gli anziani che non hanno saputo contenere e reagire.

Accade la stessa cosa per la violenza negli stadi. Anziché indirizzare i giovani verso comportamenti adeguati – ad esempio verso lo sport – ne abbiamo solo compresso l’aggressività.

Emerge il protagonismo che porta al vandalismo e gli stadi diventano zone di guerra, catini di violenza.

Studiando i fatti legati alla criminalità si cercano delle spiegazioni ai moventi. Quanto pesano i modelli comportamentali sbagliati – acquisiti nel corso della vita – e quanta importanza ha invece la ’matrice genetica’? Criminali si nasce o si diventa?

Secondo me in parte lo si nasce, c’è una tara genetica rispetto alla capacità di adeguarsi alle regole, però il resto lo si impara nella vita, attraverso comportamenti sbagliati.

Io credo che le strade che portano alla criminalità passino da punti diversi e poi conducano al terreno della scelta criminale dove conta la capacità di inibizione che si esercita attraverso il nostro cervello.

Ma se questa capacità di freno non è mai stata educata, ecco allora che è facile cadere nel rischio criminale.

Nel momento di premere il grilletto, quali sono i valori che contano di più: ad esempio per il rapinatore o il gioielliere rapinato, in quel momento cosa conta di più, reciprocamente?

Nell’aggressione e nella legittima difesa  il limite passa attraverso il sentire che tu hai dell’altro.

Sono molto poche le persone educate che vedono nell’altro un sé stesso. Per il 70 – 75 per cento delle persone (è un dato misurato in molte occasioni da ricerche cliniche) esiste un potenziale rischio criminale. Cioè a dire: che su cento persone, è statisticamente dimostrato che 70-75 di loro potrebbero delinquere facilmente.

Il tranquillo ragioniere tedesco si era reso capace dei crimini di Auschwitz solo perché gli era stato ordinato di farlo.

Nella stessa realtà di tutti i giorni ci sono pure persone capaci di commettere illeciti solo perché glielo ordina il capufficio.

Quando si scatenano certe pulsioni che portano a episodi di criminalità particolarmente gravi (omicidi, delitti a sfondo sessuale, atti vandalici o delinquenziali) quanto incide la sfera istintivo-emotiva e quanto quella razionale? Si “pensa” sempre mentre si agisce o subentrano dei fenomeni di rimozione inconscia della razionalità?

Guardi, c’entra la sfera razionale e pure quella istintiva, perché l’aggressore pensa che se una cosa gli serve se la deve prendere.

Quelli che invece vengono meno sono i freni inibitori dovuti alla conoscenza dell’altro.

Quando sento che c’è chi ce l’ha con i rumeni o gli abissini o con le persone di etnie diverse mi sento molto triste perché credo che – visto il nostro livello di civiltà – dovrebbe esserci comunione tra le razze.

Ancora oggi noi invece vediamo il diverso come potenziale assassino.

Dovremmo considerare l’altro, il diverso come ‘uno come noi’, cioè un uomo.

Per il recupero degli stupratori la terapia che funziona di più ed evita ricadute e recidive è la psicoterapia in cui si insegna – là dove è possibile – il rapporto di empatia con l’altro.

È dimostrata la marginalizzazione delle recidive in caso di terapie empatiche, di aiuto alla comprensione degli altri. 

Quindi professore, Lei sta dicendo che in tutti i comportamenti umani deviati vale sempre l’educazione e la responsabilità collettiva…

Lo è nella misura in cui dobbiamo capire che la nostra sofferenza è anche sofferenza degli altri, far leva sulla nostra solidarietà che è combattuta dal senso di potere, che ci fa cercare un nemico.

Lo vediamo anche da esempi recenti, basta pensare a cosa è successo tra serbi e croati, agli orrori degli stupri etnici.

Dovremmo sentirci un’unica famiglia, ridurre l’immagine distorta degli altri come responsabili dei mali del mondo. Occorre un grande rispetto per gli altri, saper convivere.

A quali temi possiamo dunque legare la speranza dell’umanità in un futuro migliore?

Rispettare gli altri uomini come se stessi, questa è la base dell’autonomia e della responsabilità.

Credo che ci saranno nuovi ideali per cui vale la pena di vivere. Conservare in questa fase di transizione la centralità dell’uomo, come valore universale.

Faccio sempre l’esempio di Romolo e Remo, cioè uso la metafora della fondazione di Roma, che è fondazione della civiltà. In origine tutto nasce da un crimine, l’uccisione di Remo permette a Romolo di fare il re, dà legittimità al suo potere.

Quando poi i Sabini invadono Roma, dopo il ratto delle loro donne, Romolo fa pace e alleanza con Tito Tazio e questo avviene perchè le donne erano diventate elemento di mediazione.

E questo costringe Romolo a governare in modo diverso da come era accaduto con l’uccisione di suo fratello.

Voglio dire che ne faccio anche una questione di genere, dal ‘maschile’ abbiamo solo lotta e supremazia, dalle donne noi possiamo avere il messaggio della solidarietà, della mediazione, del consenso e delle trattative. Ed è una lezione da utilizzare anche ai giorni nostri.