L’Espresso di metà settembre ha pubblicato un articolo del suo direttore Marco Damilano sulla formazione del governo giallorosso, in cui si sostiene che la legge proporzionale, indicata come una delle questioni che dovrebbe caratterizzare le iniziative del Conte 2, con l’obiettivo di bloccare l’onda sovranista e favorire la rifondazione dell’Unione europea, in realtà consentirebbe a tutti i partiti, in particolare ai partiti centristi e a ciò che residua della vecchia sinistra, di sopravvivere “in comode nicchie” al dilagare della destra, e quindi del sovranismo.

Damilano non ha nostalgia del sovranismo, ma scrive che il Pd doveva avere il coraggio di confrontarsi elettoralmente con la coalizione della destra, invece di partecipare ad un “ribaltone” che finirà per radicalizzare la lotta politica e regalare le piazze a Salvini e alla Meloni.

Nella stessa giornata, La Repubblica ha scritto che giustamente Prodi e Veltroni difendono la legge maggioritaria, poiché questo sistema permette a chi vince di governare, mentre la proporzionale, che fotografa l’esistente, è responsabile della frammentazione dei partiti in tribù, dei continui cambi di casacca, della ingovernabilità….

Mi sono sentito provocato da queste opinioni, che meritano rispetto, ma anche dalla lettera di Gianni Cuperlo ricordata da Damilano; condivido le riflessioni accorate di Cuperlo, sulla necessità per il Pd, se vuole vincere, di rinnovarsi e ricostruire un rapporto con la società… Ma sono dubbioso quando sostiene che “se il confronto sulla legge elettorale si conclude con un ritorno al proporzionale puro, avrebbe tra gli effetti il superamento di ogni logica di coalizione e intaccherebbe lo spirito fondante del Pd, comprese primarie e vocazione maggioritaria”.

Le cose stanno così? Per quanto ricordo, la personalizzazione della politica, il trasformismo, il cambio di casacche, hanno poco a che fare con la proporzionale; sono un’esperienza della seconda repubblica, del tempo dei maggioritari…che non hanno neppure risolto la questione della stabilità delle maggioranze di governo..Anche D’Alema ha nostalgia del maggioritario, eppure per giustificare il fallimento dell’esperienza che ha segnato la transizione dalla prima alla seconda repubblica ha parlato di “amalgama mal riuscito”.

Chi mi conosce sa che non ho aderito alla Margherita ed al Pd, pure avendo sempre votato per il centrosinistra, perchè temevo che passando da una alleanza strategica tra centro e sinistra ad un partito unico, le diverse nomenclature risolvessero i problemi di un equilibrio politico “nuovo”, sottovalutando le difficoltà che questa scelta, questa “rivoluzione dall’alto”, poneva all’elettorato tradizionale del centro e della sinistra: anche del “centro che guarda a sinistra” e della sinistra del “nuovo inizio”. Comprendo quindi le tensioni che sono riaffiorate, che riguardano scissioni e nuovi partiti. Tuttavia se queste tensioni – che non sono prodotte dalla proporzionale – non si risolvono con l’intelligenza politica, come si può pensare di risolverle con il maggioritario? Semplicemente le si rendono irrisolvibili, si radicalizzano le diversità, le ragioni del dialogo che accompagna ogni vero cambiamento

È vero che stiamo vivendo una crisi di sistema, non solo di governo; ma questa crisi, il naufragio del governo giallo-verde, è dovuta anche alla riforma elettorale approvata nel 2017 da quasi tutti i partiti, per garantire la stabilità di governo, ma anche per permettere alle maggioranze dei diversi partiti di “nominare” la propria rappresentanza parlamentare.

Chi aveva progettato maggioritario del 2017 (e la torsione della democrazia dei partiti in personalizzazione della politica) pensava di favorire – con quella legge – la svolta politica annunciata dalle precedenti elezioni europee. Le cose sono andate diversamente..

Le leggi di riforma definiscono gli obiettivi che il legislatore si propone, non possono garantirli, poiché l’esito del voto è imprevedibile, ed imprevedibili sono i comportamenti indotti dalle leggi. Quando Salvini esalta il maggioritario, affermando che “chi ha un voto in più deve poter governare” dovrebbe precisare che governa “chi ha un voto in più in Parlamento”. E quando si propone di chiedere un referendum per cancellare dal Rosatellum i seggi attribuiti con la proporzionale, per sperimentare in Italia il sistema uninominale inglese, dovrebbe riflettere sui risultati prodotti dalla quota uninominale del Rosatellum: un sistema tripolare, non una maggioranza di governo…

Così, lo dico per inciso, è accaduto anche con l’elezione diretta dei sindaci. Quella legge (una delle ultime leggi approvate dalla prima repubblica) personalizzando la competizione elettorale con l’elezione diretta del sindaco, ha influito sullo svolgimento di elezioni che riguardano anche il consiglio comunale, inducendo quasi tutti i partiti a presentare – insieme alla lista per il consiglio – anche la candidatura a sindaco; le candidature si sono moltiplicate, l’elettorato si è frammentato e al ballottaggio tra le prime due candidature a sindaco, le coalizioni – necessarie per vincere – si sono spesso costruite come si costruisce un “inciucio”. Resta comunque vero che l’elezione diretta del Sindaco ha cambiato in profondità l’amministrazione dei comuni. Non contesto questo risultato.

Aggiungo una osservazione sull’uninominale (notando che può coniugarsi anche con la proporzionale..): come “maggioritario” sarebbe di gran lunga preferibile il sistema uninominale previsto in Francia per l’elezione dell’Assemblea nazionale: tutti candidati al primo turno, poi – se nessun candidato conquista, nel collegio elettorale, la maggioranza assoluta – ballottaggio tra i primi due. Il Prof. Giovanni Sartori, che ho avuto la fortuna di conoscere, preferiva tra tutti i sistemi elettorali quello francese e sconsigliava i sistemi uninominali americano e inglese.

Torno alle elezioni politiche del 2018: il M5S ha conquistato quasi tutti i collegi uninominali del Sud, mentre al Nord ha vinto la Lega. Questo imprevisto risultato ha costretto Di Maio e Salvini, leader di due partiti alternativi, a sottoscrivere un “contratto” per governare insieme con una maggioranza giallo-verde, che ha lasciato all’opposizione il Pd, “quelli di prima”. Tale maggioranza parlamentare è durata, tra i contrasti, 14 mesi: con Conte arbitro, Di Maio e Salvini vicepresidenti…Poi lo stesso Salvini ne ha decretato la fine.

Resta aperta la discussione sulle ragioni che hanno indotto Matteo Salvini a provocare la crisi del governo dopo aver ottenuto l’approvazione, da parte del governo, del Decreto sulla sicurezza (che attendeva di essere convertito in legge dal Parlamento) e a presentare una mozione di sfiducia contro Conte. In realtà Salvini ha chiesto “elezioni subito”.per trasformare i sondaggi in voti, nella convinzione che, con il M5S in difficoltà, una coalizione di destra (nazional-populista) da lui guidata, avrebbe conquistato quasi tutti i collegi uninominali e i “pieni poteri”. Questo resta il suo obiettivo.

Salvini ha del tutto ignorato che la Costituzione definisce in cinque anni la durata di una legislatura e impone di verificare – in caso di crisi di governo – se nel Parlamento esiste la possibilità di formare una diversa maggioranza di governo. O di ricostruire quella entrata in crisi. Ed è responsabilità del Presidente della Repubblica verificarlo, decidere lo scioglimento di Camera e Senato e indire nuove elezioni. Alla Costituzione si è attenuto il Presidente Mattarella.

In questo contesto si è avviato, sin dall’inizio della crisi, un dibattito che non si è concluso con la formazione del Conte 2 e si è subito intrecciato con quello sulla riforma della legge elettorale.

Così dalle ceneri della “terza repubblica” è rinata la “querelle” sulla legge proporzionale che aveva caratterizzato il declino della “prima repubblica”. La legge proporzionale può essere criticata, come vedremo, ma è la più fedele interprete della Costituzione, poiché riconosce, più di ogni altra legge elettorale, la centralità del Parlamento. Non esiste una legge elettorale perfetta. La proporzionale pura favorisce la dispersione del voto, e se nessun partito ottiene la maggioranza assoluta dei consensi, produce un Parlamento che garantisce la stabilità dei governo solo se si formano coalizioni pluripartitiche; questo è “il tallone d’Achille” della proporzionale.

Il declino della Dc, del “centro che guarda a sinistra” e il dibattito sulla “democrazia difficile”, hanno fatto aprire, negli anni ’70, una discussione tra Psi e Dc su “come correggere” la legge proporzionale al fine di favorire la stabilità del governo
Per Craxi (che è ricordato soprattutto per la “Grande riforma” presidenziale) la proporzionale poteva essere corretta con una clausola di esclusione dal Parlamento delle liste che conquistassero meno del 3 per cento dei voti a livello nazionale. Per la Dc era preferibile assegnare un premio di maggioranza al partito – o alla coalizione – che aveva conquistato almeno il 40 per cento dei voti, permettendogli così di avere la maggioranza assoluta dei seggi. Questa era la filosofia cui si era ispirata la Dc nel ’53, la legge che fu definita “legge truffa”, e che non fu ratificata dagli elettori.

Quando la discussione si è riaccesa, Craxi pensava di costringere i partiti laici (liberali e repubblicani)- che avevano formato governi di centro con la Dc, ma rischiavano di restare senza rappresentanza – a fare coalizione con i socialisti, cioè a dare vita ad una possibile alternativa alla Dc; mentre la Dc voleva costringere i socialisti a dichiarare, prima del voto, con chi intendevano fare il governo: con la Dc, o con il Pci? I contrasti sulle leggi elettorali nascondono quasi sempre un contrasto di strategia politica, riflettono la necessità di valorizzare, in maggioranza o in opposizione, i consensi ottenuti. E quando la politica si “personalizza”, diventa “spettacolo” e si intreccia sempre più con la comunicazione, diventa più difficile evitare che la strategia politica si sottragga alle tentazioni del trasformismo, ed anche all’invasione delle fake-news.

Così, quando si discute del tramonto del bipolarismo, del declino della vocazione maggioritaria del Pd, delle coalizioni possibili, queste due questioni: quale progetto, con quali alleanze…e quale sistema elettorale per vincere…si intrecciano. E quando il Pd riconosce (come hanno fatto recentemente il suo segretario, e poi il suo ex segretario…) che per essere alternativo al sovranismo, per contenerne una marcia che pare irresistibile in tutta Europa, si capisce che bisogna tornare alla politica delle alleanze, Il Pd dovrebbe riconoscere anche che il bipolarismo di cui si discute, con riferimento alle coalizioni, è molto diverso da quello di cui abbiamo fatto esperienza.

In questo contesto, dove vince chi riesce a costruire politicamente la coalizione più forte, a questo obiettivo debbono riferirsi sia sostenitori del maggioritario che quelli della proporzionale, nelle loro diverse formulazioni. Bisogna tornare comunque alla politica, per proporre riforme che si possano calare nella realtà italiana e in quella europea. Chi vuole riformare la legge elettorale del 2016, in coerenza con una riforma costituzionale che comporta il taglio dei parlamentari, (decisone che penalizza la rappresntanza delle fascie marginali del paese) se pensa ad una legge proporzionale, propone semplicemente la cancellazione della quota uninominale, con pochi aggiustamenti dei collegi ed un modesto recupero della rappresentatività delle fasce marginali; se invece pensa, come propone la Lega, ad un rilancio del maggioritario (con un referendum?) vuole cancellare la quota riservata alla rappresentanza proporzionale, per assegnare tutti i seggi all’uninominale. Le elezioni del 2018, hanno dimostrato che questa riforma non garantirebbe una maggioranza in Parlamento..

I proporzionalisti sono convinti di respingere, con la proporzionale, l’ondata sovranista, che si fonda sul maggioritario. I maggioritari sono convinti di poter mettere in campo una coalizione di destra più forte di quella organizzabile del fronte di sinistra. Decideranno gli elettori.

In realtà, l’uninominale ad un solo turno non garantisce una maggioranza parlamentare, e nello stesso tempo minaccia un potere senza limiti…E se si dovesse varare una legge a doppio turno, sarebbero le coalizioni che si confrontano nel secondo turno a decidere la geografia del Parlamento. Come in Francia, dove il nazional-populismo di Le Pen, maggioranza relativa, si è trovata sbarrata la strada da coalizioni europeiste.

D’altra parte, se è difficile per l’elettorato di centrosinistra accettare un governo giallo rosso, nel ricordo delle polemiche che hanno caratterizzato i “grillini”, contro i “democratici” (il Pd lo sta sperimentando), sarebbe anche più difficle fare accettare all’elettorato di centrosinistra ( e forse anche a quello dei CinqueStelle) una coalizione elettorale giallorossa, che un sistema maggioritario renderebbe “obbligata”. Questo è il nodo da sciogliere per le prossime elezioni regionali.

Quì si ferma la mia riflessione. Per queste ragioni sono favorevole ad una riforma che sia caratterizzata da una “proporzionale corretta”: da una clausola di esclusione non superiore al 3 per cento, e – se possibile – da un premio di maggioranza che permetta, alla lista (o alla coalizione) che supera il 45 per cento dei voti, di diventare maggioranza di governo. Di un governo che potrà essere messo in crisi solo quando esista – come prevede il sistema tedesco- un’altra maggioranza parlamentare.

(Ndr – Al testo pubblicato sul profilo FB dell’autore sono state apportate piccole correzioni marginali, in realtà di natura tecnica. Sul piano sostanziale, d’accordo con l’autore, si è precisato il passaggio su scissioni e nuovi partiti, considerando il fatto che in queste ore, appunto, una scissione si è prodotta).