Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro) 

Due mesi circa di lavoro gratis. Questo resta il parametro che misura la differenza salariale tra lavoratrici e lavoratori. Una discriminazione lungi dall’essere avviata a soluzione e che riguarda non solo il nostro Paese ma, chi più chi meno, pure il resto d’Europa, come dimostra anche la recente manifestazione delle donne in Svizzera, perché la povertà femminile è diventata insostenibile.

Il sindacato ha più volte smentito anche l’apparente virtuosismo dell’Italia a riguardo, che collocherebbe il gap salariale al 5,5% rispetto alla media europea del 17%. Ciò non corrisponde alla realtà, in quanto il dato italiano prende in considerazione solo il lavoro pubblico, non tiene conto del settore privato ne delle condizioni che vivono quotidianamente le donne nel mercato del lavoro, peggiorate nell’ultimo decennio a causa della crisi e soprattutto al Sud. Anche per questo saremo in piazza il prossimo 22 giugno a Reggio Calabria per la grande manifestazione unitaria “Ripartiamo dal Sud per unire il Paese”.

Il lavoro delle donne, dunque, é ancora marcatamente segmentato e la segregazione lavorativa permane sia a livello orizzontale che verticale. Da tempo si discute di come porre argine a questa situazione stagnante, dove tutti sanno, tutti conoscono, tutti denunciano, eppure ancora troppo poco si fa per risolvere il problema in tempi accettabili. Secondo alcuni, continuando di questo passo, bisognerà attendere addirittura 70 anni per modificare il quadro esistente. Certo, parlarne, discuterne, sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto quella politica, nel tentativo di smuovere le coscienze e indurle, più che a dire, a fare qualcosa, rimane una strategia vincente. Anche il Coordinamento donne Cisl di Pisa, ha provato ieri ad andare in questa direzione organizzando un interessante momento di riflessione sull’argomento presso la biblioteca del Centro “I Cappuccini” a S. Giusto, che ha registrato numerose presenze ed il contributo di testimoni ed esperti che hanno aiutato a capire meglio dove si annida il virus del gender pay gap per elaborare soluzioni più puntuali ed efficaci.

Se la busta paga tenesse conto solo della cosiddetta “parte spiegabile”, come ad esempio il titolo di studio, le donne sarebbero in vantaggio rispetto agli uomini, guadagnerebbero circa il 6% in più. Ma siccome il differenziale salariale si compone anche di una “parte inspiegabile”, quella discriminatoria per intenderci, la situazione si capovolge immediatamente annullando il vantaggio precedente e scivolando nello svantaggio per 5,5 punti percentuali, che rappresentano in buona sostanza il livello di gender pay gap misurato da Eurostat. Se prendiamo poi anche il nuovo indicatore Eurostat, il cosiddetto “gender overall earnings gap”, che misura l’impatto di tre fattori – guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione – combinandoli tra loro sul reddito medio sia di uomini che donne in età lavorativa, ebbene, il risultato fa lievitare la disparità di retribuzione complessiva in Italia fino a raggiungere il 43,7%. Non è una novità, poi, che le interruzioni di carriera per la cura familiare incidano per il 56% nella differenza di salario, mentre le ore retribuite per il 32% e il gender pay gap vero e proprio per appena l’11%.

Eravamo presenti all’incontro anche noi del Coordinamento nazionale donne, per portare idee e proposte quale contributo in questo cammino verso la parità di trattamento uomo-donna nel mondo del lavoro. Intanto, bisogna dire che ad oggi mancano ancora dati pubblici certi sulla situazione generale all’interno delle nostre imprese per renderci conto dell’entità del fenomeno e delle possibili cause specifiche oltre quelle già evidenziate. Esiste, come sappiamo, l’obbligo per le aziende con più di 100 dipendenti di comunicare i dati sulla situazione del proprio personale, ma si conoscono solo i dati di alcune. Adesso pare che il Ministero del Lavoro, insieme all’Ufficio della Consigliera nazionale di Parità, abbia quasi completata la messa a punto di una piattaforma informatica per facilitare alle aziende questa incombenza e quindi fornire un quadro più completo delle condizioni dei propri dipendenti.

Come Coordinamento nazionale, abbiamo avanzato in merito due proposte concrete per dare un’accelerazione a questo processo di conoscenza dei livelli salariali, e cioè rendere più stringente ed esigibile questo obbligo ed estenderlo anche alle aziende con meno di 100 dipendenti, così da avere uno spaccato molto più rappresentativo, alla luce anche della realtà imprenditoriale italiana, composta in maggioranza da piccole e medie imprese. Un altro suggerimento, infine, che abbiamo condiviso con i presenti, frutto anche della collaborazione con il Gruppo di lavoro Asvis sull’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030, è la richiesta avanzata al Governo di istituzione di una nuova Commissione per la realizzazione dell’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile presso la Presidenza del Consiglio ma indipendente dall’Esecutivo. Ciò permetterebbe di avere una visione più coordinata e complessiva e quindi più incisiva delle politiche e delle strategie di genere.