Quale classe dirigente? (Zappalà risponde a Giorgio Merlo)

Non è che a queste derive non ci sia rimedio.

Giorgio Merlo, sul “Domani” dell’altroieri si dice sinceramente imbarazzato nel fare un confronto tra la classe dirigente della prima Repubblica e quella messa in onda attualmente dalla compagine penta-legata al governo del Paese.

Siamo imbarazzati anche noi e siamo con lui anche quando ripercorre le tappe di un’involuzione della cultura politica a partire dalla rivoluzione liberale lanciata da Berlusconi e accelerata poi nelle tappe del vaffa grillino e, addirittura, della  rottamazione di Renzi. Il fil rouge che le lega essendo un continuo attacco ad una passata classe dirigente per disgregarne il sistema di comando.

La conclusione del ragionamento è ovvia: se è vero che una linea seleziona i suoi quadri, la “rivolta contro il passato” di Berlusconi e i successivi teatri del vaffa e della rottamazione non potevano non condurre alla sconcertante e stravagante situazione di governance in cui ci troviamo.

Giorgio Merlo non se ne avrà se abbiamo spinto il suo ragionamento fino a fare apparire le deficienze dei governanti da lui puntualmente evidenziate in quanto tali, come una logica conseguenza dello scadimento più generale e più preoccupante di tutta una cultura politica. In effetti la caduta del muro diede l’inizio ad un crollo di ideologie che avevano costituito cemento di tutta un’antropologia culturale della comunità. Si votava per un mondo migliore e più giusto, da una parte, o per la strenua difesa della libertà, dall’altra, sia consentita la semplificazione e quelle idee forza generavano analisi, cultura, critica e programmi che ne venivano profondamente ispirati.

Crollato il muro, svanita anche la guerra fredda che aveva fatto dell’Italia una linea fondamentale di confine nella guerra tra est ed ovest, venivano meno anche relazioni e ruoli geopolitici. In una parola, in Italia scoppiava la pace e, con essa, la dura realtà che ci strappava ruolo e ideali su cui si era sviluppata fino ad allora, la nostra cultura politica e su cui si era forgiata la classe dirigente. Con la caduta delle ideologie, scrisse Cantone almeno venti anni fa, i partiti non potevano più dare per scontata la fedeltà degli elettori, il cui voto diveniva una specie di merce da acquisire.

Spiegare l’attuale situazione con questa specie di analisi storica sarebbe però riduttivo. Non dimentichiamo che la classe politica che Merlo rimpiange – e noi con lui – si era formata nella fase pionieristica della cultura democratica, quando le democrazie coincidevano anche in termini geografici con le economie nazionali ed erano uno stile di vita vincente ed appetito in tutto il mondo, quando l’Europa era il mercato principale e l’Italia veleggiava ai primi posti in occidente, quando, infine, il debito pubblico era una leva di sviluppo essendo, in buona parte, una partita di giro tra il debitore Stato e i cittadini creditori.

Tutte queste cose vanno tenute presenti quando parliamo della classe dirigente, altrimenti si corre il rischio di leggere la storia come una sorta di diario personale di soggetti sempre più incapaci ed inadeguati non si sa perché. Ma il pericolo maggiore è fare quello che fanno oggi i politici, anche quelli dell’opposizione. Vedono che l’Italia è malata, che la febbre è alta e cresce ancora…e si incazzano con il termometro. Perché attribuiscono tutta la colpa ai penta-legati dimenticando che il loro populismo –sintomo e non causa della malattia- nasce da un declino antico che loro stessi non hanno saputo combattere.

Non me la voglio, però, cavare così, con analisi da cento lire al mazzetto. Vorrei dire a Merlo che bisogna ci si interroghi su possibili soluzioni del problema della qualità della classe dirigente e, a questo proposito, faccio solo un esempio: nel PD c’era e probabilmente c’è ancora la litania sulla deriva che vede il partito politico sussunto (mi si perdoni il termine marxiano) nel partito degli eletti. Problema assai rilevante, al punto che alla vigilia dei voti amministrativi ci si chiede spesso se convenga candidare qualcuno competente o, invece, qualcuno in grado di prendere molti voti (amministratori di condominio, commercianti, belle ragazze e via dicendo). Un recente film francese – Chez nous – (A casa nostra) illustra bene, passo passo, la scelta per la candidatura tra le fila populiste, di una donna molto positiva, infermiera a domicilio apprezzata da tutti, vagamente di sinistra in partenza, ma assolutamente impolitica. Quel film vale più di molte analisi per comprendere la nascita e la crescita del rifiuto antisistema che affligge la politica.

Non è che a queste derive non ci sia rimedio. Ad esempio: perché non trasformare le Commissioni di Garanzia del partito in vere e proprie funzioni di Auditing? Potrebbero gestire un sistema di qualificazione dei candidati che si propongano, stilando un regolamento che preveda percorsi di formazione obbligatori, certificati antimafia e di buona condotta, esperienze politiche e curricula, tutto con punteggi, accresciuti o diminuiti secondo il comportamento tenuto dal candidato prima e dall’eletto poi. Piccolo esempio di partito aperto alla società, con servizi resi alla comunità.

E ancora: alla luce del rischio di questa trasformazione del consenso in voto di scambio sul territorio, non sarebbe meglio che si votassero, per esempio per i Consigli Municipali delle grandi città, candidati per competenza e non per appartenenza territoriale? Certo, qui il discorso si complica, perché una modifica del genere avrebbe, nonostante l’irrilevanza dei consigli municipali,  un impatto rilevante nella vita dei partiti. Ma la cosa si può fare o, almeno, se ne potrebbe parlare. Già, ma con chi?