Analizzando la crisi dei partiti “costituzionali”, nazionali e democratici (quelli cioè sui quali l’art.49 della Costituzione fonda la nostra democrazia parlamentare), il cui venir meno ha reso ingovernabile l’Italia nell’ultimo trentennio, Ernesto Galli della Loggia ne individua la causa nell’eccessiva concentrazione di poteri trasferiti a sindaci e presidenti di regione con le elezioni dirette (1993 e 1999), compresa la nomina ad libitum degli assessori, e nella dilatazione delle competenze regionali con la riforma del 2001. Questo è certamente vero, come confermano le recenti inefficienze e contraddittorietà nella gestione della pandemia, ma non è tuttavia sufficiente sopperirvi invocando semplicemente il ritorno ad un passato pur rivalutato.

L’Italia di oggi non è più quella della Costituente (1946), né quella dell’attuazione dell’ordinamento regionale (1970) e neppure quella del ultimo decennio del secolo, quando si pensò che tornando allo smembramento medievale per Comuni e poi a quello pre-unitario sostenuto dalla Lega con più poteri alle Regioni si sarebbe ottenuta maggiore governabilità.

È stato esattamente il contrario, un “suicidio”- secondo Galli della Loggia -“valso a mettere fuori gioco la forma partito tradizionale di cui il PD è rimasto l’ultimo rappresentante e unico erede della Prima Repubblica”. Quei partiti erano infatti il collante delle diversità e il perno su cui ha ruotato per quasi mezzo secolo la democrazia, l’economia e la società italiana. La loro grossolana e sommaria liquidazione ha inceppato il funzionamento dell’intero sistema, travolgendo anche il PCI che, dopo aver supportato la DC nella lotta al terrorismo ed uscito malconcio dal crollo dei modelli che l’avevano ispirato, favorì l’operazione sperando di “ereditare” per via giudiziaria un potere a lungo invano inseguito. Salvo poi a confluire nell’Ulivo con gli ex DC, per poter vincere con Prodi, e poi nel PD.

Ora torna a ricorrere ad un ex giovane democristiano come Enrico Letta per recuperare il ruolo di “partito della Repubblica”, evitando di insistere nella scorciatoia “regionalista” con Bonaccini, di fatto sostenitore delle antitetiche posizioni autonomiste dei “governatori” leghisti.
Nel frattempo sono intervenuti il mercato unico europeo, la moneta unica, il grande allargamento dell’UE ad est, il boom cinese e il postcomunismo russo, il superamento dell’egemonia nord-atlantica con il policentrismo economico e politico, il fallimento delle “primavere” arabe e della politica euromediterranea, il massiccio esodo di giovani da sud a nord, la crisi della finanza virtuale del 2008 e, ora, quella provocata dalla pandemia.

Mentre intorno cambiava tutto, noi rispondevamo ritornando al passato remoto. E neppure si può oggi pensare di riparare tornando al passato prossimo, ma occorre rivedere criticamente la storia, studiare accuratamente la realtà attuale e proiettarsi nel futuro con un progetto funzionale di revisione profonda della governance multilivello. A questo sono chiamati Enrico Letta e la classe dirigente di tutto il vasto campo riformista che aspetta di essere coinvolto.

Un innovativo e documentato progetto di riforma della governance lo suggerisce da tempo la benemerita e titolata Società Geografica Italiana, che ha individuato intorno alle città metropolitane 36 Dipartimenti regionali, da sostituire alle 20 Regioni che – troppo grandi e potenti, oltre che costose e inefficienti- svuotano i partiti, e alle 110 Province, divenute anch’esse fonti ripetitive di sprechi e inefficienze.
Guardando più da vicino alla Sicilia, ciò significa redistribuire in tre enti territoriali elettivi e dotati di autonomi poteri legislativi l’enorme potere politico-burocratico accentrato nella Regione speciale. A salvaguardia della dimensione Sicilia, per mantenerne identità e poteri di macroprogrammazione, si può ricorrere a periodiche sedute congiunte dei tre consigli dipartimentali elettivi, presiedute a turno dai presidenti dei tre Dipartimenti, come accade da tempo con il modello di successo trentino-altoatesino.
Non basta. Per meglio coordinare territori vasti ed omogenei anche nei rapporti con lo Stato e con l’Europa e programmarne sviluppo e grandi infrastrutture, occorre raggruppare i Dipartimenti in tre Macroregioni : Nord, Centro e Sud.

La riforma si può utilmente anticipare ripristinando il Comitato dei Presidenti delle Regioni meridionali, per meglio negoziare il partenariato con lo Stato e con l’UE, a partire dai piani di utilizzo dei fondi della Next Generation EU. Si avvierebbe così anche il superamento della dimensione fin qui rigidamente intergovernativa che ha impedito la crescita politica dell’Europa. È altresì auspicabile che le Macroregioni si dotino degli strumenti di cooperazione transfrontaliera all’uopo creati dall’UE, come i G.E.C.T. istituiti dal Reg.to CE n.1082/2006, al fine di meglio corrispondere alle mutate dimensioni economiche, culturali e sociali di più vaste aree e contribuire a sviluppare le politiche di prossimità e vicinato (esistono già i G.E.C.T Alpino, Adriatico e insulare mediterraneo “ArchiMed”).

Se il PD vuole riposizionarsi con Enrico Letta come partito-pilota del rilancio della democrazia costituzionale repubblicana, dovrà guardare avanti, alle nuove dimensioni dell’Italia, rinnovandone e facendone funzionare le istituzioni, e dell’Europa, accelerandone la crescita politica e ponendosi come perno propulsore nello sviluppo intorno a noi, sopratutto dei Paesi M.E.N.A. Diventando cioè portatore di un grande progetto riformatore, capace di coinvolgere tutte le altre componentI progressiste della società italiana, compresi i 5 Stelle se supereranno definitivamente con Conte lo sterile antagonismo, ma soprattuto i giovani ai quali riconsegnare il loro futuro.