Quale rimedio per la democrazia malata? Bisogna che essa riesca a trasformarsi da statale in comunitaria.

 

Contro la tendenza, ormai debordante, a incentivare il potere personale del leader, la battaglia democratica deve spingere in direzione di un cambiamento di fondo, così da mettere in relazione il principio di rappresentanza con quello di responsabilità. Dunque, una riforma della democrazia in grado di assicurare la sopravvivenza degli stessi partiti politici. Serve una nuova legge elettorale di tipo proporzionale.

 

 

Andrea Piraino

 

In un interessante e partecipato convegno, organizzato dalla rete delle Agorà democratiche, si è discusso ieri a Palermo di “democrazia malata”. Dalle analisi svolte nei vari interventi dei numerosi partecipanti  — tra i quali Manlio Mele che ha introdotto i lavori, Nicolò Oddati e Nicola Zingaretti che li hanno conclusi — è emerso con una certa consonanza di toni che la democrazia oggi si presenta sempre più in evoluzione verso forme di organizzazione ‘diretta’ che strutturano, cioè, il potere politico senza intermediazione o, addirittura, contro il parlamento e le istituzioni rappresentative.

 

Questa tendenza si è accentuata a seguito del mancato completamento di sistema della riforma della governance locale che era stata introdotta all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso come risposta alternativa alla crisi della democrazia dei partiti colpiti dallo tzunami di tangentopoli con l’elezione diretta, prima, dei sindaci (e dei presidenti di Provincia) e, poi, dei presidenti delle Regioni. La non riuscita riforma del sistema di organizzazione delle funzioni di governo a tutti i livelli, dal Comune allo Stato, ha determinato infatti un pasticcio istituzionale inestricabile, dove alla fine l’unica novità emersa è stata il potere personale degli eletti a cariche monocratiche o, comunque, apicali.

 

Invece della modifica del sistema politico-istituzionale con l’introduzione del principio di responsabilità, insomma, l’elezione diretta degli organi monocratici di governo ha determinato solo il collegamento diretto, senza mediazione alcuna cioè, dei cosiddetti leader con gli elettori, i cittadini, l’opinione pubblica ed ha lasciato del tutto immodificato il modello di governo delle varie istituzioni pubbliche incentrato sul presunto principio di rappresentatività.

 

Affermatosi questo paradigma di base, secondo il quale il circuito democratico consiste nel rapporto diretto tra il leader e l’opinione pubblica, risulta evidente come tutta l’organizzazione politica della Repubblica si sia via via trasformata introducendo un rapporto politico-elettore non solo immediato, diretto ma anche personale. Nel quale, però, la relazione non è paritaria ma sbilanciata tutta a favore dei politici, con i cittadini che sono trasformati in  “pubblico” e, quindi, con l’unico potere di “cambiare canale televisivo” o di sfogare la propria frustrazione con sproloqui  postati su i vari social network.

 

A tutto questo vanno poi aggiunti gli effetti dello sviluppo tecnologico che con l’introduzione della rete ha consentito ai politici di intervenire in modo permanente nel rapporto con i singoli cittadini e quindi di determinare una sorta di democrazia live per mezzo della quale l’opinione pubblica ha l’illusione di partecipare al processo decisionale della politica mentre, in realtà, dietro questo vero e proprio schermo populistico, si nasconde il potere personale (e, spesso, autoritario) di un capo politico che ha la pretesa di rappresentare la volontà generale del Popolo e, dunque, di essere l’unico e incontestabile decisore.

 

Ma se questa è con larga approssimazione la diagnosi, venuta fuori da più di tre ore di dibattito intenso ed anche appassionato, della malattia di cui soffre la democrazia nel nostro Paese, vediamo allora brevissimamente quale potrebbe essere una efficace terapia che sia in grado di restituirle la sua piena funzionalità e capacità di garantire ai fondamentali valori di libertà ed eguaglianza che la costituiscono una effettività che da tempo è andata perduta. In questa prospettiva terapeutica, però, non farò riferimento alle varie tesi enunciate (naturalmente, per cenni) dai molti intervenuti nel corso del dibattito svoltosi nella bellissima cappella sconsacrata dell’Oratorio di Sant’Elena e Costantino, quanto piuttosto alle mie personali convinzioni che, in estrema sintesi, si possono ricondurre alla seguente tesi.

 

È necessario riprendere, per così dire, la strada della responsabilità che, negli anni ‘90 del secolo scorso, era già stata individuata come capace di intervenire a correggere il sistema politico-istituzionale. Ma non solo nei meccanismi della governance locale quanto in una nuova prospettiva che riguardi innanzi tutto le istituzioni centrali del sistema repubblicano (Governo e Parlamento) per trasformare la nostra democrazia da statale in comunitaria.

 

Per intuire l’elemento caratterizzante di questo cambiamento è sufficiente sottolineare che si tratterebbe di un sistema organizzativo non più improntato alla logica monista dell’esercizio della medesima funzione sovrana da parte di entrambi i due poteri costituzionali del Parlamento e del Governo ma di un organismo strutturato in modo da valorizzare il dualismo delle funzioni che i due organi esercitano. Non per lasciarlo, però, alla deriva di una separazione senza fine, ma per collegare le due funzioni tra di loro connettendole in un circolo virtuoso fondato sull’interazione dell’attività di controllo con quella di governo. In altri termini, per mettere in relazione il principio di rappresentanza con quello di responsabilità.

 

Circostanza, quest’ultima, che costituirebbe il fondamento di una vera riforma della democrazia in grado di assicurare la sopravvivenza degli stessi partiti politici, restituiti al loro pluralismo, e la valorizzazione dello stesso ordinamento istituzionale in cui non sarebbe solo l’organo collegiale del Parlamento ad essere eletto direttamente dal corpo elettorale ma anche quello monocratico del Premier. Fermo restando il ruolo di unità e garanzia del Presidente della Repubblica.

 

In sostanza, un rapporto nuovo tra Popolo ed Istituzioni e, soprattutto, la possibilità di fare subito una riforma per l’elezione del Parlamento in senso proporzionale, superando d’emblée tutte le alchimie che finora ci hanno costretto a passare da un porcellum all’altro (in verità, rosatellum o italicum) senza riuscire a cavare un ragno dal buco.