Quel mattino di sangue a Piazza Nicosia. Giubilo, ex sindaco, ricorda l’azione terroristica delle BR contro la Dc romana.

 


Nell’attentato morirono gli agenti di PS Antonio Mea e Pierino Ollanu. Un terzo, Vincenzo Ammirata, sebbene gravemente ferito, si salvò. Il primo a recare alla Dc romana i sentimenti di vicinanza e  solidarietà fu il segretario del PSI Bettino Craxi. Poco dopo fu la volta di Benigno Zaccagnini, ancora segnato dal dolore per la vile uccisione del Presidente del partito, Aldo Moro, nella tragica primavera del 1978.

 

Pietro Giubilo

 

Come altre volte, anche quella mattina, in una stanza di Piazza Nicosia accanto a quella del segretario politico, mi attendeva la paziente attività di elaborazione delle tesi con le quali la Dc romana, per la prima volta e da tre anni all’opposizione in Campidoglio, si confrontava con la “giunta rossa” di Petroselli, che Elia Baffoni avrebbe definito un po’ di anni dopo, non senza amorevole enfasi, “il sindaco di Roma morto sul lavoro  come un edile”.

 

Il gruppo consiliare all’opposizione incalzava la nuova giunta con puntualità. L’Ufficio programma l’aveva voluto il segretario Aldo Corazzi, perché la vittoria delle sinistre nel 1976, con la sua ondata elettorale, era partita dalle periferie e si presentava con l’ambizione di una diversa, anche se poco chiara, proposta urbanistica. L’azione di Petroselli, da lì a poco sarebbe subentrato al “lento incedere” di Argan, intendeva, infatti,  misurarsi proprio sul terreno sul quale il partito aveva lavorato intensamente, con i sindaci Amerigo Petrucci e Clelio Darida, approvando il Nuovo Piano Regolatore Generale del 1965, ricco di una visione strategica ed avviando il Piano di Risanamento delle Borgate che, partendo dalla previsione e  realizzazione dei depuratori,  si irradiava a portare acqua, luce, collettori e servizi nelle tante zone spontanee di una Città cresciuta tumultuosamente non solo per demografia e immigrazione, fenomeni che il primo Piano di Edilizia Economica e Popolare, pur puntuale e di ampia previsione, non riusciva ad assorbire adeguatamente.

 

Poi era in corso la campagna elettorale delle politiche che si sarebbero svolte un mese dopo. Su Roma ci dovevamo impegnare per il necessario recupero del  “gap” di consensi rispetto al PCI;  ma l’appuntamento delle urne coinvolgeva soprattutto la struttura regionale, tanto è vero che in sede era presente, già al suo posto, il segretario Bruno Lazzaro. Invece, l’abitudine tutta romana di “prendersela comoda”, cioè di iniziare a lavorare non troppo presto e di fare qualche giro a piedi nei dintorni, insieme ai più vicini collaboratori – un amico consigliere municipale che poi ebbe un ruolo nell’ufficio sanità del partito nazionale e un altro di originale intellettualità che venne eletto parlamentare più di una decina di anni dopo – ci aveva portato a colloquiare, “facendo due passi”, dando un’occhiata alle bancarelle dei libri di Piazza Fontanella Borghese.

 

Ad un tratto, sentimmo nettamente ripetuti colpi di arma da fuoco provenire dalla non lontana Piazza Nicosia. Sovrastavano il rumore dell’intenso e regolare traffico che si produceva per la confluenza di auto e mezzi pubblici, anche a rotatoria, tra via della Scrofa e via del Clementino e che poi si snodava, dopo la piazza, verso il lungotevere, con la breve via dei Somaschi o verso la storica Piazza Umberto I,  percorrendo via di Monte Brianzo. Perché il Comitato romano della Dc, insieme a quello regionale, occupava nella piazza, ove in altro edificio alloggiavano gli austeri uffici del  Tar del Lazio, due piani di un palazzo piacentiniano nel centro della città storica. Non erano lontani il Senato e la Camera, la sede della potente corrente dorotea di Piazza Cardelli e, a Fontanella Borghese, la facoltà di Economia e commercio della Sapienza dove insegnava il professor  Amintore Fanfani.

 

Insomma quella piazza era nel cuore della città con il suo intenso e caotico traffico. Più incuriositi e non ancora sgomenti ci affrettammo a raggiungerla ed assistemmo ai  drammatici, successivi momenti del conflitto a fuoco avvenuto tra alcuni brigatisti rossi e una pattuglia della Digos che era sopraggiunta sul posto a seguito dell’allarme lanciato per l’invasione della sede del partito. Colpendo gli agenti, parte del commando terrorista rimasta fuori dell’edificio in funzione di copertura aveva consentito agli altri brigatisti, infiltrati all’interno del palazzo, di scendere in strada e riuscire, nonostante il caos veicolare, a dileguarsi.

 

Il corpo dell’agente ucciso giaceva sul luogo dove era stato colpito, un altro, più lontano, ferito, morì qualche giorno dopo in ospedale: ambedue mostravano plasticamente  l’audacia di una azione condotta nel cuore della Città. Erano vicini all’angolo della piazza, dove, sul muro sovrastante, il partito volle affiggere qualche tempo dopo una targa in ricordo, sotto la quale ieri, dopo la cerimonia ufficiale della Polizia di Stato, con alcuni colleghi che sono stati amministratori e parlamentari, abbiamo deposto un mazzo di fiori bianchi con la scritta “Gli Amici di Piazza Nicosia”.

 

Aspettammo solo poco tempo prima che ci fosse consentito di raggiungere le stanze della sede per constatare il bilancio dell’azione brigatista: avevano  portato via qualche documento, tracciato scritte inneggiati alle Br e lasciato dei volantini che giustificavano l’assalto; gli impiegati erano scossi, ma non disperati. Mentre svolgevamo questo primo sopralluogo giunse inaspettato e per primo il segretario nazionale del PSI Bettino Craxi, avvertito e probabilmente già al lavoro nella non lontana sede del suo partito in via del Corso. L’uomo politico che più di ogni altro si era battuto per tentare la liberazione di Aldo Moro era teso, con lo sguardo di chi intravedeva il senso angosciante della continuità dell’azione terroristica. Poi intervennero gli esponenti nazionali del partito a cominciare da Benigno Zaccagnini, segnato da questa ulteriore  vicenda,  mentre ancora gli  si leggeva in viso  la desolazione per la fine, un anno prima, dello statista democristiano.

 

Fu un’azione seconda solo, per efferatezza e tecnica operativa, a quella militare di via Fani che ancora desta stupore e dubbi, cioè il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della scorta.

 

Da tempo sezioni, militanti, esponenti del partito romano erano oggetto di attentati e di ferimenti, soprattutto nelle zone periferiche dove la Dc romana aveva una importante rete organizzativa e politica, attenta alle esigenze di una Città cresciuta negli anni ’50 e ’60 con rapidità, e in vaste zone, spontaneamente. Alcune di queste sezioni avevano subito vere e proprie devastazioni, ma non si  piegavano e continuavano l’impegno e il lavoro politico, di  quadri locali consapevoli di difendere una condizione di libertà.

 

L’attentato costituì un brusco innalzamento del livello “militare” delle azioni intimidatorie e devastanti fino a quel momento portate avanti contro le sedi democristiane. La Questura invitò i dirigenti del Comitato romano e gli esponenti locali “più in vista” ad usare cautela negli spostamenti e a tenere un costante, se pur non facile, collegamento con gli uffici, al fine di organizzare improbabili forme di protezione. Il segretario Corazzi fu invitato ad allontanarsi dalla sua residenza a Roma e per alcune settimane alloggiò in un appartamento sul litorale dove più di una volta lo raggiunsi alla sera per cenare insieme e rendere meno penosa la sua condizione di isolamento.

 

La cerimonia di ieri ci ha riportato al ricordo di quella lontana sofferenza e a confermare la grande, sempre viva,   riconoscenza per quei due eroici difensori dello Stato. Questi non esitarono, per impedire quell’azione proditoria dei brigatisti, ad agire con quell’alto senso del dovere che albergava nel loro animo generoso, umile e splendido. E ci sono tornate nelle mente le immagini di amici, luoghi, tragedie e smarrimenti di quegli anni difficili nei quali l’azione eversiva tentò di cancellare una realtà politica e organizzativa che, invece, dimostrò di non essere senza radici profonde, ritornando in maggioranza in Campidoglio sei anni dopo, con un ritrovato vasto consenso popolare, sentendo di avere ancora la fiducia dei cittadini romani e di voler compiere ancora la sua funzione rappresentativa.