Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Sergio Valzania

Un buon libro si riconosce anche dalla sua capacità di suscitare interrogativi che vanno oltre l’argomento specifico che affronta. È il caso di Democrazia Cristiana, il racconto di un partito (Palermo, Sellerio, 2019, pagine 248, euro 16) di Marco Follini. Il titolo è esplicito. Il volume prosegue l’attenta rilettura che dell’esperienza democristiana fa da anni l’uomo politico riconosciuto come il suo ultimo qualificato interprete, che l’ha accompagnata fino all’abbraccio nel Pd, dal quale poi si è ritratto con una commendevole discrezione. Il percorso è stato lungo, spostandosi via via dalla ricostruzione storica alla valutazione politica, come è il caso de La nebbia del potere di quattro anni fa.

«Il racconto di un partito» riprende il filone dedicato alla storia dell’esperienza democristiana, facendo tesoro del tempo trascorso e della riflessione maturata, negli anni, fino a produrre una trasformazione profonda. Nella nuova rappresentazione, a cambiare in modo deciso è il punto di vista dell’autore. Nella veste di saggista Follini si era presentato fino a oggi come cronista, analista e commentatore di quella che è stata la più lunga avventura politica dell’Italia moderna, giudicata da molti anche come la più fruttuosa. Il racconto lucido e corretto della vicenda pubblica di quegli anni e dei suoi protagonisti rimaneva puntuale, documentario, prezioso per la ricostruzione degli avvenimenti e per un giudizio su di essi, senza però essere capace di trascendere sul piano emotivo la dimensione contingente di quanto veniva esposto.

In questa occasione l’autore ha fatto un passo avanti nell’esperienza narrativa, ha accentuato la misura della propria compromissione affettiva ed empatica rispetto agli avvenimenti descritti, dei quali è stato testimone attento e a volte partecipe in maniera significativa. Questo lascia spazio al patos e apre all’interrogativo antico sul senso e sulle necessità della storia. Per scriverla occorre davvero il distacco dei secoli, come pretendevano i positivisti tedeschi dell’Ottocento, che finivano con il parlare dell’antica Roma per riferirsi alla Berlino dei loro anni, o bisogna sentire su di sé il fiato della contemporaneità, sull’esempio mai messo in discussione di Tucidide?

Leggendo l’ultimo libro di Follini non si hanno dubbi, la soluzione giusta è la seconda. Chi ha vissuto sulla propria pelle un’epoca storica, ne ha condiviso gli umori e i sapori, ne ha conosciuto e frequentato i protagonisti in momenti pubblici e privati, nelle virtù e nelle debolezze, è pienamente adatto a farla rivivere davanti agli occhi del lettore. Follini scrive della Democrazia Cristiana con il tono di un aristocratico russo fuggito dal proprio paese allo scoppio della rivoluzione d’Ottobre. Ha coscienza piena di rievocare un mondo scomparso — anche per sua colpa, senza nessuna speranza di rinascita, come tutte le fasi sociali, che il tempo si occupa di archiviare — ed è capace di scriverne con un rimpianto lucido, una tenerezza avvertita, un ricordo che va oltre la nostalgia.

Proprio questo senso di passato perduto, quest’aria da salotto Guermantes, costituisce uno degli indubbi elementi di forza del libro, insieme al riserbo e la delicatezza affettuosa con i quali Follini racconta la propria vita letta nello specchio politico della Democrazia Cristiana. «Non ci siamo mai saputi raccontare, noi democristiani», è l’incipit del volume, «Quanto siamo stati la regola, e quanto l’eccezione?» ne è la conclusione, interrogativa. Si passa dalla questione della narrazione storica a quella della periodizzazione.

Perché lì si colloca l’altro nodo che Follini, se non scioglie, contribuisce ad affrontare con linearità. La stagione del potere democristiano fu una parentesi, una sorta di bizzarra coincidenza di interessi che produsse un assetto del tutto originale per l’Italia, o forte di una tradizione secolare seppe cogliere alcuni dei tratti caratterizzanti della società, offrendole una grande occasione di espressione e di sviluppo?

È un tema che continua a riproporsi, nella confusa terminologia di prima, seconda, terza, forse addirittura quarta repubblica, senza che il sistema politico italiano sia stato capace di ritrovare l’equilibrio, in parte garantito dal contesto internazionale, che ebbe nel cinquantennio successivo alla guerra.