Radicalità, il cambiamento che serve all’Italia? La lezione di De Benedetti e i dubbi che solleva.

 

 

Gabriele Papini

 

Riconoscere in Carlo De Benedetti un campione di ciò che egli ritiene necessario per il Paese, un cambiamento radicale, viene abbastanza arduo. Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia (edito da Solferino) è il libro con cui l’Ingegnere – classe 1934 – invece che “cercare la quiete” come converrebbe a persone della sua età (è lui che lo scrive) avanza proposte, convinto che questo sia “il momento della tempesta”.

 

Il titolo del volume avrebbe maggiore senso se lo avesse scritto uno storico marxista e non uno dei protagonisti del capitalismo italiano negli ultimi decenni. Infatti, più che radicale, l’Ingegnere, è stato più volte inserito nella categoria dei radical chic. Concetti e riflessioni, contenuti nel volume, che l’Ingegnere ha più volte ribadito in diverse interviste sui mass media, con alcune finali “riflessioni sulla vecchiaia”: quasi una sorta di De Senectute. Il capitalismo che ha tradito la sua promessa fondamentale, quella del benessere generalizzato; il dilemma tra libertà e sicurezza in un mondo multipolare; le crescenti disuguaglianze sociali, che divorano dall’interno le società e le democrazie; il nostro povero Pianeta, la “casa comune” che di tutte queste ingordigie ne fa le spese. Insomma un manifesto politico, buono forse per la nuova segretaria del Partito Democratico, che con l’Ingegnere condivide la nazionalità svizzera e (forse) alcune conoscenze nel “salotto buono” del mondo accademico e finanziario.

 

Poi c’è la storia personale di De Benedetti: imprenditore di successo, finanziere, editore (non puro, a proposito di “salute della democrazia”) che di radicalità, in questa storia economica (spesso sovrapposta a quella del Paese) si è nutrito ben poco e ancor meno l’ha subita. Alcuni cenni biografici ripercorsi nel volume restano illuminanti: i 100 giorni in Fiat, i rapporti con l’Avvocato Agnelli, l’esperienza in Olivetti, la visita a Cupertino con Elserino Piol (e l’incontro con un giovane Steve Jobs “vestito da straccione”), l’avventura nei giornali: la guerra di Segrate, il controllo del gruppo editoriale Espresso-Repubblica (con la contestata cessione ai figli) e infine il quotidiano Domani.

 

In definitiva, il volume appare la lezione di un esponente del capitalismo che la radicalità più che applicarla l’ha insegnata. Coinvolto nel capitalismo radicale, quello sì, più che assolto da esso. Naturalmente non si tratta di considerare la ricchezza una colpa, ma “bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti…”.