Tra un mese esatto avremo i risultati del referendum sul taglio del numero dei parlamentari, in cui pare scontata vittoria dei Sì.

Per parlarne ritengo utile fare un balzo indietro nel tempo. Quando Mariotto Segni propose il referendum per abolire le preferenze multiple e intercettò la voglia di cambiamento del popolo italiano, stanco di un sistema politico logorato dai tira e molla di potere che avevano trovato la loro sintesi nel famigerato CAF (Craxi, Andreotti, Forlani).

Eravamo nel 1991. L’opposizione comunista con la segreteria Occhetto stava compiendo i primi passi di un faticoso cambiamento – dal PCI al PDS –, necessitato dalla svolta epocale della caduta del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, mentre la Lega Nord di Bossi cominciava a rappresentare un punto di riferimento per coloro che, nella parte più ricca e produttiva del Paese, ritenevano necessario “dare il giro al tavolo” del sistema. Solo nel successivo febbraio 1992 sarebbe scoppiato il bubbone di Tangentopoli, e il malessere dell’elettorato trovò proprio nel referendum l’opportunità di esprimersi. Oltre il 95% del corpo elettorale (62% degli aventi diritto, malgrado – o proprio per – l’invito di Craxi di disertare le urne e “andare al mare”) fece trionfare il quesito referendario, che aprì di fatto la porta all’epoca del maggioritario e della cosiddetta Seconda Repubblica.

Ovviamente non fu l’inconsistente Mariotto a beneficiare del risultato: sarebbe stato Berlusconi a raccogliere i frutti di quella crisi politica e a caratterizzare il successivo ventennio. Va sottolineato il consenso bulgaro ottenuto da una proposta che, paradossalmente, toglieva al cittadino elettore un pezzo importante di potere e responsabilità: la scelta diretta dei propri rappresentanti. Poche voci allora si levarono per il No, paventando i rischi di una progressiva perdita di democrazia (lo feci in un intervento sul giornale per cui scrivevo da anni: l’editore però era folgorato dal “nuovismo” di Segni e venni messo alla porta…).

Da allora sistemi maggioritari sempre più tendenti alla Legge Acerbo (Porcellum e Italicum) e liste sempre più bloccate, con “nominati” al posto degli “eletti”. Ne è conseguito che deputati e senatori hanno perso il contatto con gli elettori, perché per il proprio destino politico è molto più importante la fedeltà al capo, che decide le liste, piuttosto che il consenso delle persone. Il servilismo fa premio rispetto al merito. Non stupiamoci quindi né dell’aumento costante dell’astensionismo né del progressivo scadimento delle istituzioni rappresentative. Fino a toccare il fondo con quei “miserabili” che hanno richiesto i 600 euro di bonus-Covid pur percependo lo stipendio da parlamentare.

In questa situazione, come non capire il punto di vista di chi intende votare Sì “perché fanno tutti schifo, ma se non altro ne manteniamo di meno”?

Qui sta la forza del Sì al taglio del numero dei parlamentari. Un Sì che pare destinato a vincere a mani basse, malgrado le buone ragioni per votare NO. Ne abbiamo già pubblicate tante, a partire dal nostro presidente emerito Guido Bodrato (“il taglio dei parlamentari è una minaccia per il pluralismo, garanzia di democrazia; è una minaccia per la democrazia liberale”), a quelle del quotidiano on-line Linkiesta (“Il No al referendum è un No al populismo, è un No ai demagoghi e ai sovranisti con le peggiori intenzioni”) e di Lorenzo Dellai (“se vinci con il populismo, è il populismo che vince”); da quelle espresse nella scheda critica dei giuristi del Centro Studi Livatino e dal costituzionalista Andrea Piraino (“il Sì favorirebbe ulteriori fenomeni di verticalizzazione del sistema politico-istituzionale e di consolidamento di una classe politica già di per sé ampiamente autoreferenziale”), alla presa di posizione delle Sardine, che dimostrano di essere un soggetto capace di autonoma analisi politica.

Non aggiungerò altre mie motivazioni, ritrovandomi in quelle espresse. Ma dovrebbe essere chiaro a tutti che il numero dei parlamentari è un falso problema.

Detto che ci pare preferibile una rappresentanza più diffusa (meglio un deputato ogni 100mila abitanti che uno ogni 160mila, come sarebbe se vincesse il Sì), ribadiamo che nessuno pone una pregiudiziale sui numeri, ma sulla qualità. In un Parlamento di nominati, non i 915 attuali, non i 600 che rimarranno con la vittoria del Sì, ma persino fossero ridotti a 60 sarebbero troppi. Per formare governi e prendere decisioni basterebbe il vertice dei capi partito: come in una riunione di condominio, ognuno portatore di tanti millesimi in rapporto ai voti ricevuti.

Questa non è una provocazione, ma il logico punto d’arrivo di una recessione antidemocratica determinata da leggi elettorali oltre il limite della costituzionalità, da partiti del capo, liste bloccate, nominati e conseguente svalutazione del Parlamento, svuotato di funzioni dall’abuso di decreti legge; e ora dal taglio dei parlamentari. Il prossimo passo di questa deriva sarà l’introduzione del vincolo di mandato e l’abolizione del voto segreto (con la motivazione di evitare il deprecabile trasformismo dei singoli deputati: è solo ammesso il trasformismo dei capi partito…). A questo punto, per alzare la mano a comando e convertire in legge i decreti, anche pochissimi parlamentari saranno una spesa inutile. Tanto, con questo simulacro di democrazia, basta che il corpo elettorale (anche una minoranza, peggio per chi si astiene…) si esprima ogni 5 anni votando (o televotando, magari sulla piattaforma Rousseau…) il proprio leader preferito nel teatrino mediatico.

Noi Popolari abbiamo una idea diversa di democrazia, quella plasmata nella Carta costituzionale da coloro che avevano combattuto per la libertà. Diffidiamo di chi predica il nuovo all’insegna del decisionismo, del primato dell’esecutivo, del presidenzialismo plebiscitario. Guarda caso Stefano Ceccanti, rappresentante principe di queste idee nel PD, si è esposto per il Sì al taglio dei parlamentari. Dopo la batosta al referendum Renzi-Boschi, di cui fu uno degli ispiratori, cerca adesso una facile rivincita sull’onda del populismo anticasta. Paradossale situazione, in cui l’esponente di una concezione elitaria di democrazia si sposa con il populismo della destra sovranista e antielitaria e con la demagogia anticasta dei 5 Stelle. Anche se questi ultimi, che paiono incapaci di mettere insieme un progetto organico, perseguono – scrive Domenico Galbiati – “una sostanziale umiliazione della democrazia rappresentativa per liberare il campo all’avanzata della cosiddetta democrazia diretta”, di fatto una pseudo-democrazia digitale guidata da una élite: come definire diversamente la Casaleggio & Associati?

E abbiamo un altro paradosso: i partiti populisti che hanno portato in Parlamento i rappresentanti più inetti e “miserabili” (leghisti e grillini quelli che hanno richiesto il bonus-Covid), e che quindi più hanno svalutato le Istituzioni, sono quelli che più si battono per il taglio dei parlamentari.

Penso di aver chiarito che c’entra poco il numero. Il vero nodo è la qualità dei rappresentanti del popolo. E la qualità si migliora solo con un taglio netto rispetto al recente passato e con il rilancio del fondamento democratico secondo cui sono i cittadini – e non i capi partito – a eleggere con le loro scelte i rappresentanti parlamentari. Allora sistema proporzionale, per garantire rappresentanza e reale inclusione dell’elettore, con scelta delle persone attraverso le preferenze.

Già alcuni anni fa scrivemmo che era necessario ridare slancio alla nostra democrazia malata attraverso un “lavacro del proporzionale”: trascorse altre stagioni politiche all’insegna del leaderismo mediatico e della demagogia, che hanno portato la credibilità della politica sotto il fondo del barile, il sistema rappresentativo incentrato sui partiti può rigenerarsi solo affidando la responsabilità delle scelte ai cittadini, “con rappresentanza proporzionale e preferenze. Senza trucchi e senza inganni”. Togliendo così la principale ragione dell’astensionismo crescente: la convinzione di non contare nulla.

La decisiva battaglia politica per salvare la democrazia rappresentativa disegnata dalla nostra Costituzione sarà quella per una legge elettorale che permetta al cittadino di avere rappresentanza scegliendo un partito e all’interno di quello le persone ritenute più meritevoli. Quindi proporzionale e preferenze. Rispetto al sistema in vigore nella Prima Repubblica si possono prevedere miglioramenti come circoscrizioni elettorali più piccole, per contenere le spese di propaganda dei candidati, e correttivi per favorire la governabilità come una ragionevole soglia di sbarramento (3-5%) e l’introduzione della “sfiducia costruttiva”. Questo è il cambiamento da perseguire, malgrado le resistenze di chi pensa di lucrare ancora rendite di posizione nei carrozzoni elettorali del maggioritario e dei partiti di volta in volta con il vento in poppa che, forti di neppure il 20% di consensi reali nel Paese, puntano ad accaparrarsi la maggioranza dei seggi in Parlamento grazie ad abnormi premi elettorali.

Adesso però c’è da affrontare un passaggio meno rilevante ma più insidioso per la tenuta della democrazia rappresentativa. Non mi faccio illusioni sul risultato. Malgrado le buone ragioni del NO credo che preverranno largamente i Sì. Rispetto alla vittoriosa battaglia referendaria del 2016 contro la riforma Renzi, che ribaltò in un mese sondaggi sfavorevoli, oggi le condizioni sono diverse. Allora al NO di chi, come noi, difendeva la democrazia rappresentativa disegnata dalla Costituzione si sommarono i voti dei partiti di opposizione che volevano far perdere al capo PD una battaglia decisiva. I sondaggi post elettorali svelarono che il 60% dei NO era composto da due terzi di voto politico antirenziano, grillino e leghista, e da un terzo (6 milioni) di “difensori della Costituzione”.

Questa volta invece c’è un fronte compatto dei partiti per il Sì: anche nel PD coloro che, in fondo in fondo, ammettono le ragioni del No si limitano a sussurrarle, per non disturbare troppo il manovratore, restio a legare il partito a una posizione politica “impopolare” e probabilmente perdente.

Noi, come Dellai, pensiamo invece che “ci sono buone battaglie che devono essere combattute”.

Chi vuole passare da un Parlamento di lacché a un Parlamento di “liberi e forti” cominci a votare NO al referendum populista sul taglio dei parlamentari. Sapendo che sarà solo l’inizio di una decisiva fase politica tutta da giocare. Anche mettendo in campo un nuovo soggetto politico.