Sarà perché, come hanno scritto Massimiliano Coccia e Susanna Turco nell’ultimo numero dell’Espresso in questi giorni in edicola, l’anti-politica è ormai “fuori mercato”; o perché le bugie dei promotori della riforma costituzionale che prevede il taglio di 345 parlamentari con la conseguente riduzione della Camera a 400 deputati e del Senato a 200 componenti sono state inoppugnabilmente svelate da fonti ufficiali indiscutibili; o, ancora, perché al contrario di ciò di cui si rammaricava nel suo profilo Twitter il sottosegretario dei 5Stelle all’Economia Alessio Villarosa, che però ha attribuito la colpa delle sue farneticanti parole ad un collaboratore,  “c’è la libertà di pensiero e di voto”, il dato del quale bisogna rendersi sempre più conto da parte dei fautori del NO al referendum del 20 e 21 settembre prossimi è che il suo esito non è per nulla scontato a favore del SI, come appariva nelle settimane scorse, e che ora, a pochi giorni dal voto, la battaglia si può vincere. L’importante è che non si sottovaluti quale sia la posta in gioco e soprattutto si faccia capire all’opinione pubblica che la contesa in corso non è né banale né moralistica. Non si tratta, infatti, del risparmio annuo per le casse dello Stato di qualche decina di milioni di euro e né meno del presunto miglioramento della qualità del lavoro delle Camere e della loro rappresentanza che nulla hanno a che vedere con la diminuzione del numero dei loro componenti. Men che meno si tratta, come pure si dice, di una riforma senza vision e priva di obbiettivi precisi.

      All’incontrario, essa vorrebbe costituire il primo tassello di un disegno riformatore che ha come obbiettivo finale la sostituzione della democrazia rappresentativa con la cd. democrazia diretta. Lo affermava esplicitamente, all’epoca ( 12 luglio 2018) della presentazione di un intero pacchetto di riforme costituzionali alla Camera dei Deputati, Riccardo Fraccaro, ministro “per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta” del I° Governo Conte: “La volontà popolare ha sancito chiaramente il passaggio verso la terza Repubblica, nella quale è essenziale riconoscere la centralità dei cittadini sul piano delle forme di partecipazione alla vita politica”. E lo ribadiva qualche tempo dopo Davide Casaleggio, presidente dell’associazione Rousseau, che seppure dall’esterno detta l’indirizzo politico del movimento 5Stelle: “Oggi grazie alla Rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile”. Insomma, come detto, l’intenzione vera di questa iniziativa è, alla fine, l’introduzione della democrazia diretta che dovrebbe consentire a tutti i cittadini di partecipare ai processi decisionali che riguardano la vita comunitaria senza delegare a nessuno le scelte che appartengono a tutto il Popolo.

     Dunque, una finalità molto seria che avrebbe dovuto essere considerata con grande  attenzione -diciamocelo francamente- sia da parte del mondo scientifico-culturale che, soprattutto, da parte di quello politico. Quest’ultimo, invece, con ingiustificabile leggerezza, non solo l’ha sottovalutata ma addirittura l’ha considerata una ‘merce di scambio’ per accordi di governo o battaglie di opposizione. Determinando così, innanzi tutto, una torsione del valore costituzionale a strumento della politica politicante e, poi, una lacerazione proprio del paradigma democratico e della funzionalità del sistema repubblicano.  Con la conseguenza, come ha scritto Marco Damilano (nel n. dell’Espresso cit.), di favorire la deriva verso l’impossibilità di riportare “a un filo comune il mosaico degli interessi particolari, sempre più feroci, sempre meno disponibili a conciliarsi con gli interessi degli altri” e di agevolare lo scivolamento de “la Res Publica, la Cosa di tutti … a diventare una Selfie-Repubblica, una Repubblica del Selfie, dove ognuno si rappresenta da solo, ognuno fa l’autoscatto della propria urgenza particolare o addirittura individuale”.

     Questo sarebbe, infatti, l’esito finale di tale processo voluto dai grillini verso la democrazia diretta che piuttosto che la partecipazione popolare come proprio tratto distintivo presenta la fisionomia di un organismo plebiscitario e leaderistico. Espressione piuttosto di un populismo che allo stereotipo del modello rappresentativo sostituisce forme immediate prive di qualsiasi intermediazione e che le nuove tecnologie della comunicazione trasformano completamente ergendo chi le utilizza ad esperto di tutto lo scibile umano, a critico verso tutti gli attori politici, a titolare della “verità” in quanto espressione del “popolo autentico”. Così, facendo emergere che la democrazia in prospettiva si caratterizzerà sempre più per assumere “forme di organizzazione diretta che strutturano la partecipazione politica senza intermediazione o, addirittura, contro il parlamento, i partiti politici e tutta quella rete di infrastrutture sociali, a cominciare dai sindacati e dall’associazionismo, che costituivano il tessuto connettivo tra il popolo ed il potere e, quindi, le istituzioni (dello Stato)”.

       Ecco, qual è la vera posta in gioco! Se passa, infatti, al referendum il SI questi scenari si trasformeranno immediatamente in attuali ed il futuro democratico del nostro Paese diventerà incerto ed a rischio.

      Detto questo, però, con il paventare quest’esito e votando domenica/lunedì prossimi, invece, NO alla riduzione dei parlamentari non intendiamo negare né la oggettività della crisi, per certi versi irreversibile, della democrazia rappresentativa né la necessità di costruire una alternativa al suo modo di organizzare il reggimento comunque democratico, secondo i principi ed i valori espressi dalla Costituzione, delle nostre Comunità. Il che significa che bisognerà mettersi al lavoro per costruire nuove istituzioni parlamentari più forti ed autorevoli delle attuali Camere e soprattutto che svolgano funzioni diverse. Non solo. Ma anche Camere che siano differenziate nella rappresentatività che non può essere più solo politica ma deve diventare anche territoriale  e delle Comunità autonome locali. Perfettamente il contrario, cioè, di quanto si intenderebbe fare con i due disegni legge costituzionali, in discussione in Parlamento e complementari a questa legge ‘taglia teste’,  per abbassare l’elettorato attivo e passivo (?) nel voto del Senato e per abolire la regionalità dell’elezione di quest’ultimo.             

      Ma, naturalmente, tutto ciò non sarebbe sufficiente. Una tale riforma del Parlamento, infatti, per ambire al cambiamento della democrazia rappresentativa di cui si diceva, non potrebbe prescindere (non importa se contemporaneamente) né dalla modifica della “forma di governo” nella direzione dell’elezione diretta  del  premier né dall’adozione di un sistema di elezione della Camera dei Deputati di tipo proporzionale ma con collegi uninominali (in uno con l’elezione di secondo grado del Senato). Solo così infatti sarebbe possibile introdurre nel nostro ordinamento il principio della responsabilità nel governo delle istituzioni e con esso il modello di democrazia che è stata definitiva comunitaria e che si ritiene corrisponda al meglio anche allo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche ed a quella che diventerà la sempre più diffusa cittadinanza digitale. 

       In sostanza, una inedita forma di democrazia alternativa sia a quella rappresentativa  che a quella diretta in cui i governanti non sono liberi di determinarsi secondo l’interpretazione che essi stessi danno dell’interesse generale ma dovranno rispettare il patto stabilito per mezzo del programma votato dagli elettori, i quali in questo modo avranno la possibilità i controllarne costantemente l’adempimento ed eventualmente modificarne i contenuti attraverso l’attività dei propri rappresentanti in Parlamento, costantemente collegati con le forze politiche di riferimento. Circostanza, quest’ultima, che costituirebbe il fondamento di una vera riforma dell’attuale democrazia capace di assicurare la sopravvivenza agli stessi partiti politici (naturalmente, non più quelli tradizionali di derivazione ottocentesca) mantenendoli legati al principio della rappresentanza pluralistica mentre l’esercizio della responsabilità comunitaria verso il governo si gioverebbe degli strumenti delle nuove tecnologie. Delineando, come si diceva, un sistema di democrazia comunitaria che -nel suo ricollegare cittadini ed istituzioni, governati e governanti, popolo ed élites- crea un nuovo rapporto virtuoso e dà inizio ad una nuova storia della partecipazione popolare.

      È questa la prospettiva riformistica dei sostenitori del NO che certamente non siamo per il mantenimento dello status quo ante delle istituzioni repubblicane ma anzi riteniamo che esse debbano essere radicalmente cambiate ma non certo nella direzione della democrazia diretta (melius:  plebiscitaria e leaderistica) bensì -come detto- della democrazia delle Comunità