Repubblica di Macedonia del Nord, Grecia, Nato ed Unione Europea

In questi giorni, l'attenzione degli osservatori di politica internazionale è rivolta verso un piccolo Stato balcanico (con capitale Skopje) denominato soltanto da poche settimane “Repubblica di Macedonia del Nord”

In questi giorni, l’attenzione degli osservatori di politica internazionale è rivolta verso un piccolo Stato balcanico (con capitale Skopje) denominato soltanto da poche settimane “Repubblica di Macedonia del Nord” a seguito di un accordo raggiunto con la Grecia lo scorso giugno, dopo una annosa disputa protrattasi per circa trenta anni.
Il motivo di questo rinnovato interesse sta principalmente nel fatto che la NATO ha invitato quel Paese a diventare il trentesimo membro dell’Alleanza, dopo una attesa durata oltre tredici anni.

I due eventi sono strettamente legati l’uno all’altro, poiché la Grecia, proprio a causa delle divergenze sul nome, aveva sempre esercitato il diritto di veto per bloccare la richiesta macedone di integrazione euro-atlantica nei ranghi della NATO e, in prospettiva, in quelli dell’Unione Europea.
Ma perché la Grecia si è così a lungo ostinata a rifiutare il nome “Repubblica di Macedonia”, che il minuscolo stato confinante si era dato con referendum popolare nel 1992 (al momento della proclamazione di indipendenza), trasformato un anno dopo “pro bono pacis” (in versione onusiana) in “Former Jugoslavian Republic of Macedonia” (FYROM), riconosciuto dalla stragrande maggioranza della Comunità Internazionale?
È presto detto. Atene sosteneva che la denominazione “Macedonia” rappresenta l’usurpazione di un nome che appartiene esclusivamente alla omonima regione settentrionale del proprio territorio e che da tale usurpazione avrebbe potuto derivare il rischio di future rivendicazioni di Skopje su quella stessa regione.

La Macedonia – precisava, spesso e volentieri, il portavoce – è stata greca per almeno tremila anni ed i suoi abitanti sono i soli ad avere sempre parlato la lingua greca e ad avere dato vita alla grande arte e cultura classica. Nel 1944, Tito aveva voluto scrivere una nuova storia del territorio macedone sia per equilibri di politica interna sia per preparare il terreno a future rivendicazioni territoriali nei confronti della Grecia. A tal fine, egli arrivò ad affermare che l’antica Macedonia era slava e che il suo popolo discendeva da Alessandro il Grande. Trattasi – veniva sottolineato con enfasi – di un clamoroso falso storico, poiché gli Slavi sono arrivati in quella regione soltanto mille anni dopo gli insediamenti greci ed il nome “Macedonia” è stato utilizzato da almeno 1500 anni, come stanno a provare i nomi delle città, dei fiumi e dei personaggi della storia vissuti in quell’area, tutti rigorosamente greci. Anche all’epoca della dominazione romana e poi bizantina – si argomentava – il territorio macedone era abitato da indistinte popolazioni bulgare (a nord) ed elleniche (a sud), con la presenza di lingue e culture diverse e, del resto, non esiste alcuna fonte ufficiale che menzioni una qualsivoglia etnia macedone prima dell’arrivo del comunismo. Insomma, per i greci la parola “Macedonia” era stata sempre e soltanto una espressione geografica, che Tito aveva trasformato in entità nazionale per motivi strettamente politici.

Ovviamente le autorità macedoni rigettavano tale versione, menzionando l’esistenza di popolazioni illiriche e frigie sul territorio macedone fin da 1000-1500 anni prima di Cristo. Per loro era stata una tribù macedone, di lingua e cultura slava, (apparsa intorno al VII-VIII Sec. a. C.) che, sotto la guida di Filippo II e di suo figlio Alessandro il Grande, aveva assoggettato le città-stato greche, dando poi vita ad un enorme impero. Del resto – veniva fatto osservare – macedoni e greci si erano sempre considerati popoli del tutto diversi al punto che questi ultimi, nei testi dell’epoca, definivano i primi “barbari”. Inoltre, era storicamente provata l’esistenza nel Medio Evo di un impero slavo con alla testa Samuil, uno slavo macedone residente ad Ohrid. Quando l’imperatore bizantino Basilio II lo conquistò dovette ufficialmente riconoscere le peculiari caratteristiche etniche, linguistiche e culturali della popolazione soggiogata. Infine, con un salto di alcuni secoli, dopo la sconfitta greca ad opera degli Ottomani (1897), era sorto in quella regione un movimento indipendentista, l’IMRO (Organizzazione Macedone Interna Rivoluzionaria) che, nel 1903, si rese protagonista di una clamorosa azione militare contro una guarnigione turca di stanza ad Ilinden, che portò alla istituzione di un governo rivoluzionario. Esso è considerato ancora oggi dai Macedoni come il primo governo macedone della storia anche se fu di breve durata, poiché brutalmente abbattuto dai Turchi.

Ricordo che, verso la fine del 2007, grazie al diretto coinvolgimento americano, il negoziato ebbe una forte accelerazione, almeno sul piano della moltiplicazione degli incontri fra i negoziatori delle due parti, ma i risultati furono molto scarsi poiché la distanza fra le due posizioni restava notevole. Sembrava mancare l’atmosfera giusta per una intesa, anche perché le due capitali cominciarono a trovare in questo “impasse” personali motivi di interesse. Infatti, i greci si erano resi conto che il diritto di veto nelle loro mani poteva trasformarsi in arma letale contro le aspirazioni europeiste di Skopje, mentre il Governo macedone, avendo questa disputa risvegliato il sentimento nazionalista della popolazione, decideva di cavalcarlo anche per garantire la propria sopravvivenza, messa a rischio dalle perduranti incertezze economiche e dalle ancora vaghe prospettive di una sollecita integrazione europea.

All’epoca, in quanto Capo della Missione OSCE a Skopje, trovavo la disputa anacronistica, in un momento in cui il processo di allargamento dell’Europa stava (almeno tendenzialmente) sottovalutando simboli nazionali ed identità. Insomma, questo confronto su interessi culturali, simbolici ed identitari mi sembrava riportare indietro le lancette dell’orologio della Storia di quasi un secolo!
Come noto, negli anni seguenti, una terribile crisi economica costrinse la Grecia a ridimensionare il proprio ruolo nei Balcani e nell’area mediterranea nonché a rivedere il quadro delle proprie priorità politiche ed economiche. In questo nuovo scenario la disputa con Skopje è andata gradatamente ridimensionandosi, portando i governanti ad adottare al tavolo negoziale lungimiranza politica e sano pragmatismo responsabile, che hanno consentito loro, sfidando gran parte della rispettiva opinione pubblica interna, di raggiungere un accordo.

Trovo estremamente positivo ed incoraggiante che dalle rive del lago di Prespa – dove è stato firmato lo storico documento -Tsipras e Zoran Zaev, i leader dei due Paesi, abbiano in fondo lanciato all’Europa, con la loro saggia intesa, un messaggio di pace e cooperazione contro il rigurgito nazionalista e sovranista, che sembra avvelenare il clima politico di questa travagliata antivigilia elettorale per il rinnovo del Parlamento a Strasburgo.
Il loro mi sembra un esempio da seguire, sul quale i governanti europei (ma anche tutti i politici e gli elettori) dovrebbero riflettere a fondo.