“Sturm und drang”: tempesta e assalto.

Questa sembra la migliore metafora per una immagine oggi prevalente: quella della vorticosa, incessante  presenza delle parole nella nostra vita.

Non è forse la parola la più straordinaria espressione dell’intelligenza umana?

Descrive, spiega, anticipa, apre, conclude, è la chiave di accesso alla porta che si spalanca sul mondo, è il filo sottile che unisce l’umanità, ordito e trama di un invisibile alfabeto universale che ci permette di capire ed essere capiti.

Ma non sempre la sua presenza è così neutrale.

A volte la parola è il nemico invisibile con cui dobbiamo combattere, la catena opprimente che vorremmo spezzare, la verità apparente che ci preme di confutare.

Ci nutriamo avidamente di parole prima che siano loro a impossessarsi della nostra anima.

Volenti o no, siamo più che mai immersi in un oceano di cose dette e sentite, partecipiamo al chiacchiericcio universale che prende le sembianze dei tempi nuovi specie quando si materializza e si alimenta con l’uso delle nuove tecnologie.

E’ come se l’intero pianeta trattenesse il respiro, avvolto e soffocato dall’abbraccio stretto e infinito delle voci che si levano ovunque e che se potessero pure darsi la mano il nostro mondo sarebbe come impacchettato in una rete impenetrabile.

Un tempo le parole si muovevano con le gambe della gente o si spostavano con misurata lentezza: oggi si mischiano ai fatti in tempo reale, li seguono e li anticipano, sono qui e altrove, davanti a noi e ovunque.

Persino le immagini senza il supporto delle spiegazioni e del commento sono inespresse, sbiadite, spente, indecifrabili.

E’ come se la stessa realtà, quella dei fatti, dei comportamenti e delle azioni si accendesse di più completi significati smaterializzandosi: la narrazione sostituisce gli eventi e ricostruisce la trama della storia, il ricordo li fa rivivere intimamente, li evoca, li arricchisce, la fantasia li anticipa come non mai si realizzeranno.

Nel turbinio incessante del dire e del commentare le parole vanno misurate, tenute a bada, usate con discernimento: sono apparentemente innocue ma si caricano di valore e di senso, ora appartengono al bene, ora si impregnano del male, hanno un peso, una misura, un esito.

Sono un tesoro da spendere con parsimonia, una risorsa per dare senso alla nostra presenza in mezzo agli altri, un talento per conoscersi e ri-conoscersi.

Se ne pronunciano talmente tante, tutti i giorni e altrettante se ne sentono dire che capita a tutti, prima o poi, di rimanerci impigliati come pesci nella rete, di essere smentiti dall’incoerenza del giorno dopo.

Oltre la cultura della comunicazione e delle immagini sembra materializzarsi quella prevalente del commento, che prende le mutevoli sembianze della riflessione, del dialogo, dell’esternazione, del gossip. 

Arriverà il giorno in cui ci scambieremo messaggi con il pensiero? 

Lasciamo alle neuroscienze e alle ricerche sull’intelligenza artificiale la risposta a questo affascinante e forse inquietante quesito.

Ma certamente possiamo già fare molto oggi, con i nostri mezzi, per evitare di impostare un rapporto esclusivamente difensivo con le parole.

Per quanto sia diffusa la consuetudine del parlare a vanvera e della chiacchiera, per quanto possa  risultarci fastidioso il mormorio delle voci indistinte, per quanto sia sottile e pervasivo il tambureggiare delle e.mail e dei messaggi di testo, per quanto si possa essere ogni giorno blanditi dai convincimenti mediatici, ci resta pur sempre – a un bel punto – l’opportunità di tacere.

La società muove all’assalto delle coscienze con la lancia della persuasione occulta: cerchiamo di armarci con lo scudo del discernimento e della ragionevolezza, per resistere alle parole che vogliono insinuarsi con l’inganno nella nostra intimità o che finiscono per turbare il nostro già faticoso equilibrio esistenziale.

Mi pare che nello sciocco e inconcludente brusio delle voci senza appartenenza occorra dotarsi di un ponderato senso della misura.

Non possiamo ascoltare tutto ne’ possiamo subire un significato prevalentemente commerciale della comunicazione.

L’aristocrazia della parola non dimora nelle gerarchie dei ceti sociali ma nella nobiltà d’animo di chi ne sa dosare con sapienza e criterio l’uso più appropriato.